Memorie del soprasuolo

Bo aprì gli occhi di scatto. Nel rettangolo di luce spalancato sul corridoio si stagliava una sagoma scura.
La postura aggressiva e i capelli ricci che si srotolavano sulle spalle gli fecero capire che erano arrivati guai.
«Guarda guarda» proruppe una voce femminile. «Quel secchione di Bo in punizione.» Scoppiò a ridere.
«Ciao An.»
Le luci diffuse dalle pareti aumentarono d’intensità.
La ragazza dai lineamenti orientali entrò, scortata da un piccolo robot che si fermò a lato della porta, e crollò sulla poltroncina accanto a Bo.
«Allora? Tu in punizione?»
«Non sono in punizione. Questa è la biblioteca. È una punizione solo per te.» Si rilassò sulla poltroncina e le luci si affievolirono. «Studiavo storia.»
«Appunto. Se non è una punizione questa» sospirò lei appoggiandosi allo schienale. «Penso di poter soffrire assieme a te, se Rob non ha nulla in contrario» aggiunse lanciando un’occhiata al robot.
«Ti sono state comminate due ore di studio obbligatorio. La storia è un’ottimo argomento» rispose il robot.
Bo sfiorò il display installato sul polso. Le luci si affievolirono e iniziò una proiezione tridimensionale.
«La rivolta dei campagnard,» disse una voce sintetica «dieci anni dopo la Prima Discesa, sfociò in quella che viene chiamata la Seconda Discesa. Le tecnologie di sintesi alimentare resero obsolete coltivazione e allevamento, permettendo ai pochi uomini rimasti in superficie di raggiungere il resto della popolazione nelle sicure e confortevoli città commerciali nel sottosuolo.»
«Che palle!» An diede una manata a Bo sfiorando inavvertitamente i controlli sul polso. Svanirono le immagini di impianti chimici e le facce felici di persone nei corridoi della città. Apparve un paesaggio alberato, il sole splendeva in un cielo blu intenso e alcuni animali brucavano l’erba.
I due ragazzi sobbalzarono spaventati. Le proiezione si affievolì e le luci si riaccesero.
«Cos’era quella roba?» Chiese An.
La biblioteca interpretò la domanda come un’esortazione a proseguire la lezione. «Immagini della superficie. Risalgono a un tempo anteriore alla Prima Discesa.» La proiezione riprese mostrando persone impegnate in varie attività all’aperto.
«Guarda. Erano costretti a vivere schermandosi gli occhi.» Osservò Bo indicando alcune persone che indossavano occhiali da sole.
«Non sarà vietato guardare queste cose?» Chiese An.
«Non esiste alcun divieto riguardante la superficie» rispose la biblioteca. «Però è un argomento che non interessa a nessuno ed è considerato maleducazione parlarne.»
Le immagini si susseguivano trasportandoli in un mondo di colori vividi e forme irregolari che faticavano a interpretare.
Bo percepì il turbamento di An e si sentì contagiato dalla sua agitazione.
«Voglio andare fuori.» disse la ragazza stringendogli con forza una mano.
«Puoi uscire se vuoi.» Bo controllò il display. «Sei qui da più di due ore. La punizione è finita.»
An si alzò facendo accendere le luci e lo fissò negli occhi.
«Non voglio uscire da questa stanza. Voglio andare fuori» aggiunse indicando verso l’alto.
«Sei pazza?» Bo impallidì. «Nessuno vuole uscire. È pericoloso, scomodo, sporco.»
«Bla bla bla» rispose An alzando gli occhi al cielo. «Voglio andarci. Dev’essere bellissimo.»
«Non hai sentito cos’ha detto la biblioteca? Gli ultimi uomini rimasti all’esterno hanno fatto una rivolta per poter scendere nelle città. L’avrebbero fatto se lì fuori fosse così bello?»
«Io ci vado» rispose lei. Si rivolse al robot che attendeva immobile. «Rob, è possibile uscire all’esterno?»
Il robot si sforzò di sembrare imbarazzato per quanto glielo permetteva la faccia metallica. «Sì, è possibile. Ma la gente è fuggita dal soprasuolo. La luce era troppo forte, nessuno riusciva mai a leggere il display dei propri smartphone.»
«Cos’è uno smartphone?» Chiese Bo per sviare la conversazione.
«I display non erano installati nel polso e la gente se li portava in giro in mano. E le proiezioni retiniche funzionano male con troppa luce.»
«Non mi importa» affermò An. «Non voglio vivere fuori, voglio solo dare un’occhiata. Forza Rob, guidaci.»
Il robot protestò, ma An fu inflessibile. Visto che nessuno desiderava uscire non era parso necessario vietarlo, quindi il robot, con grande sconforto di Bo, non poté opporre obiezioni valide.
Si incamminarono. Ovunque c’erano persone che compravano, bambini che facevano capricci davanti alle vetrine, odore di cibo e grida. I corridoi della città rilucevano di vetrine ammiccanti stracolme di merci e l’onnipresente musica di sottofondo riempiva i pochi istanti di silenzio.
Il robot si diresse verso la periferia, regno delle piccole botteghe di abiti a basso prezzo e bigiotteria.
Percorsero un ultimo corridoio vuoto e si fermarono davanti a una porta che sbarrava loro il cammino. «Sono anni che nessuno apre questa porta» disse il robot.
Le luci che si riflettevano nel vetro non permettevano di vedere al di là. Un cartello recitava: «ɘɿɒɿiƚ – ATAЯTИƎ»
Rimasero perplessi ad osservare la scritta. «Perché diavolo scrivevano al contrario?» chiese Bo.
An sentì un brivido. «Non è al contrario! È scritta per essere vista da fuori. Dice ‘ENTRATA – tirare’. Venivano da fuori.» Rise eccitata. «Forza, apri.»
Bo si appoggiò ai battenti e spinse con la segreta certezza che non si sarebbero mossi. Invece la porta si aprì senza grande sforzo. Le loro facce deluse fecero ridere il robot. «Non è l’esterno. Siamo parecchi metri sotto il livello del suolo.»
Erano in un corridoio simile a quello da cui provenivano, tranne per lo strato di polvere che ricopriva ogni cosa. Il robot indicò una porta. «Lì ci sono le scale. Gli ascensori non funzionano da almeno un secolo.»
Si precipitarono oltre la porta ritrovandosi immersi nel buio assoluto. Il robot accese un faro sul centro della fronte. «A volte mi tocca eseguire manutenzioni in luoghi male illuminati» disse, quasi scusandosi.
Salirono alcuni piani di scale finché arrivarono davanti a una porta d’acciaio su cui campeggiava il numero zero. «Oltre quella c’è la superficie.»
An spinse con forza, e la porta si aprì di schianto facendola ruzzolare all’esterno, in quello che un tempo era stato il parcheggio del centro commerciale. Si rimise in piedi con una capriola suscitando un sussulto di ammirazione in Bo.
Una vertigine improvvisa li colse quando guardarono in alto, inghiottiti da un blu infinito senza soffitto. Chiusero gli occhi per lo stordimento e la luce intensa.
An prese la mano di Bo e la strinse forte. Il cuore le batteva all’impazzata. «Ho paura. Torniamo indietro.»
Bo sembrò non sentirla. Ripresosi dallo spavento fissava affascinato davanti a sé. «Quelli sono alberi» disse incamminandosi trasognato.
Il sole bruciava sulla pelle; profumi sconosciuti, suoni e colori stimolavano i loro sensi.
«Toccate qui» disse Bo sfiorando la corteccia rugosa di un albero. «Non ho mai sentito niente di simile.»
An si precipitò ad appoggiare la mano accanto alla sua.
Il robot rimase a fissarli. «Spiacente, non ho il senso del tatto.»
Accarezzarono l’erba soffice, gridarono meravigliati alla vista dei fiori e si ritrassero spaventati quando un’ape svolazzò loro attorno.
«Perché sono fuggiti da tutto questo?» chiese meravigliata An.
«Non lo so. Ma noi non fuggiremo. Verremo a vivere qui. Fuori.» Guardò il display sul polso, ma non era possibile leggere nulla nella luce intensa. La pelle delle braccia stava iniziando ad arrossarsi e coprirsi di piccole pustole.
«È il sole» disse il robot. «Non siete abituati.»
Si spostarono all’ombra di un albero, ma An lanciò un grido di dolore.
«Quella è un’ortica. Non toccatela» spiegò il robot.
L’aria aveva iniziato a muoversi vorticosamente, come accadeva davanti ai grandi condizionatori dove giocavano da bambini.
Si guardarono. Non c’era nessun ventilatore.
«Perché l’aria si muove?» sussurrò An. Una grande nuvola di puntini bianchi volava nell’aria verso di loro. «Ho paura.»
Un gridò si levò dal bosco.
Bo deglutì. «Forse è meglio rientrare.»
Corsero alla porta e si precipitarono all’interno con un sospiro di sollievo.

Libero Seleni



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