Alla morgue

Alla morgue

«Che diavolo sta succedendo?» L’uomo spalancò la porta dell’ufficio e si affacciò alla sala della morgue per scoprire l’origine del trambusto.

Davanti al vetro che si affacciava sulla sala con i lettini in acciaio su cui erano distesi i cadaveri, tre uomini stavano trattenendo una giovane donna che pareva in preda a una crisi di follia.

«Ci scusi dottore, ma questa donna ha iniziato a urlare e a battere i pugni sui vetri. Non siamo riusciti a calmarla.»

Il medico si avvicinò alla donna che si divincolava cercando di liberarsi.

Lei lo fissò, aveva il viso arrossato, la fronte corrucciata e le labbra strette. «Dov’è? Dove l’avete messa?»

Il dottore le appoggiò le mani sulle spalle cercando di tranquillizzarla. «Sono il dottor Lacorix. Se promette di stare calma può venire nel mio ufficio e spiegarmi la situazione. D’accordo?»

La donna annuì e il medico fece cenno ai tre inservienti di lasciarla andare.

Lacorix indicò alla donna di precederlo nell’ufficio da cui era appena uscito, poi chiuse la porta e si sedette alla scrivania. Lei si accomodò, senza attendere il suo invito, su una sedia di fronte a lui.

«Allora, mi dica di che si tratta.»

«La donna che era esposta ieri, dove l’avete messa?»

«Quale donna?»

«C’era una donna, —esitò un attimo prima di proseguire— mi assomigliava.»

«Una sua parente?»

«Forse. Sono tornata per guardala meglio, ma non è più fra quelli esposti.»

Il medico appoggiò i gomiti alla scrivania e si sporse verso la donna. «Se nessuno li riconosce entro un mese vengono sepolti in una fossa comune. Mi dispiace.» La donna parve sul punto di avere una nuova crisi e il dottore mosse le mani in avanti per prevenire la sua reazione. «Forse ho capito di chi sta parlando, non credo sia già stata sepolta; mi aspetti un momento.»

Lacroix si alzò e uscì dall’ufficio. Scambiò qualche parola con uno degli inservienti poi rientrò e si risedette.

«La riporteranno qui così potrà procedere al riconoscimento. Ma ora voglio che mi dica qualcosa di più. Innanzitutto mi dica come si chiama.»

La donna sembrò per un attimo aver esaurito il fuoco che la divorava, rilassò la fronte e si mise seduta più comoda. «Mi chiamo Annabelle Morin, vivo nel quinto arrondissement. Non frequento mai la morgue, non ne avrei motivo.» Fece un sorriso rapido, ma gli occhi rimasero tristi. «Non ho parenti stretti in vita e ho pochi amici. Ho sempre vissuto in modo piuttosto ritirato. Suona brutto detto così, ma non amo la gente.»

Si fermò, in attesa di una reazione da parte del medico, quasi si aspettasse di venire redarguita. Lacroix si limitò a fissarla senza commentare e la donna proseguì.

«Ieri ero in compagnia di un’amica che ha voluto a tutti i costi entrare, vedete è scomparso un suo familiare e temeva di trovarlo qui. Non me la sono sentita di lasciarla sola. Per fortuna la persona che temeva di trovare non era esposta, ma poi io ho visto…»

Smise di parlare e il suo sguardo si perse nel vuoto.

Il dottore attese che riprendesse a parlare, ma la donna sembrava lontana, persa nell’inseguimento di qualche pensiero sfuggente.

«Mi perdoni signorina Morin, se, come ha detto, non ha parenti in vita perché una semplice somiglianza, che dev’essere frutto di una banale coincidenza, la turba così?»

Prima che la donna potesse rispondere bussarono alla porta e uno degli inservienti fece un cenno al dottor Lacroix che si alzò e invitò la donna a seguirlo.

«La donna che vuole vedere, l’ho fatta mettere in una saletta privata. Venga, l’accompagno.»

Percorsero un breve corridoio, il dottore entrò in una piccola saletta con un lettino di metallo su cui vi era un corpo coperto da un telo bianco. La donna rimase ferma accanto al lettino, le sue mani tormentavano la borsetta che stringeva con forza fin quasi a romperla.

Lacroix afferrò il telo e scoprì il volto della donna. Il tempo trascorso dal momento della morte aveva alterato i lineamenti di un viso che doveva essere stato bello, sebbene non più giovane, ma il dottore scorse comunque una sorprendente somiglianza con la giovane che gli stava accanto.

La signorina Morin sembrò avere un mancamento, ma si riprese prima che il dottore dovesse sostenerla.

«Com’è morta?» La sua voce era ridotta a un sussurro.

«È stata ripescata dalla Senna. Secondo la gendarmerie è annegata.»

La donna alzò lo sguardo, dal corpo sul lettino al viso del dottore. «Secondo la gendarmerie? E secondo lei?»

«Non lo so. Ora è passato troppo tempo, ma quando l’hanno portata qui, beh non sembrava una persona annegata. Il corpo non era gonfio, non c’era acqua nella bocca o nei polmoni. Io credo sia morta per qualche altro motivo. Ma non c’era nessun segno di violenza, niente che potesse far sospettare qualcosa di diverso da un incidente.» Abbassò lo sguardo verso il corpo prima di proseguire a voce più bassa. «O a un suicidio.»

La donna sembrava ipnotizzata dal corpo che giaceva sulla barella. «Avete trovato qualche segno, delle cicatrici o qualcosa che possa permettere un’identificazione sicura?»

Lacroix aggrottò la fronte e fissò la donna quasi volesse leggerle nella mente. «Sa di chi si tratta o sta tirando a indovinare? Abbiamo trovato una piccola cicatrice qui.» Girò attorno alla barella, abbassò ulteriormente il lenzuolo e mostrò il palmo destro del cadavere. Un cicatrice con la forma di un sette attraversava la mano della donna morta.

La signorina Morin trasalì. «Quanti anni ha… aveva?»

«Perché tutte queste domande? Se è qualcuno che conosce ne sa probabilmente più lei di me.»

«La prego dottore, mi risponda, poi le spiegherò tutto, glielo prometto.»

Il medico sospirò e si strinse nelle spalle. «Difficile diro con precisione, era una donna non più giovane, ma non era sciupata dal lavoro o da gravidanze. Direi fra i quaranta e cinquanta. Credo di non sbagliare troppo se le dico quarantacinque anni.»

La donna si appoggiò alla parete e una lacrima le corse lungo la guancia. La asciugò con rabbia con il dorso della mano e si girò per andarsene.

Lacroix l’afferrò per il polso e la costrinse a voltarsi. «Ora mi deve spiegare. Chi è questa donna? Perché le interessa tanto?»

«Perché?» La signorina Morin alzò la mano destra mostrandola al dottore. Il suo palmo era solcato dalla medesima cicatrice. «Perché quella donna sono io!»

Il medico fece un passo indietro. «Com’è possibile? Ci dev’essere una spiegazione. È una sua parente,  qualcuno di cui non conosceva l’esistenza.  Forse una sorella maggiore. Suo padre potrebbe averla avuta con un’altra donna, magari prima di conoscere sua madre.»

La donna ridacchiò. «E la cicatrice? Caduta anche lei su un vaso di fiori quando aveva cinque anni? Le sembra possibile?» Si avvicinò al dottore, ora parlava con un tono sicuro di sé, quasi aggressivo. «No dottore. Ho capito subito che ero io non appena l’ho vista distesa fra gli altri corpi. L’ho sentito, sapevo di non sbagliare, ma mi serviva una conferma. Ora l’ho avuta.»

Si girò e aprì la porta. Il dottore rimase un momento fermo a bocca spalancata prima di riacquistare il controllo di sé. «Aspetti, dove sta andando?» 

La signorina Morin si girò verso di lui e lo fissò sorridendo. «Dottore, ho venticinque anni. Se lei ha visto giusto fra vent’anni sarò morta. Ho intenzione di vivere al meglio ogni istante che mi resta. Vivere in pieno, assaporare ogni singolo secondo del mio tempo.»

Si girò e fece qualche passo prima di girarsi nuovamente verso il dottore. «E le consiglio di fare altrettanto. A me restano vent’anni, ma chi può sapere quanti ne restano a lei?»



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