Ultramarino: un oceano un po’ troppo profondo

Ultramarino: un oceano un po’ troppo profondo

Ultramarino di Mariette Navarro è un libro che mi incuriosiva molto. Ne avevo letto una recensione positiva su “Internazionale” e quando l’ho visto in libreria l’ho subito aggiunto alla pila di nuovi acquisti. Primo romanzo della scrittrice francese, che ha già pubblicato due raccolte di poesie e alcune pieces teatrali, le è valso il  premio  Frontières 2022.

Il breve romanzo (157 pagine nella traduzione di Camilla Diez per La Nuova Frontiera) si tuffa profondamente in una delle atmosfere che amo di più. l’eerie. A differenza di weird e new weird, l’eerie non si può definire propriamente un genere a sé stante, si tratta più di un tipo di atmosfera che, a volte, permea storie anche molto diverse fra loro.

tutto il romanzo di Mariette Navarro ruota attorno a fallimenti di assenza e qualche fallimento di presenza

Nella definizione che ne dà Mark Fisher in The weird and the eerie: “L’eerie, per contrasto (con il weird), è costituito da un fallimento di assenza o un fallimento di presenza”.

Ecco, tutto il romanzo di Mariette Navarro ruota attorno a fallimenti di assenza e qualche fallimento di presenza. Spiegherò meglio questa affermazione più avanti, parlando della trama del romanzo, ma, prima di raccontare di cosa parla (spoilerando forzatamente qualcosa), e prima di parlare dello stile di scrittura voglio dare un giudizio globale.

Il mio voto per Ultramarino è un 6/7, sicuramente è un buon romanzo e sono contento di averlo letto, ma, nonostante le atmosfere di mio gusto, non è riuscito a coinvolgermi più di tanto. Come nel caso di Il mondo dietro di te, gusto personale e qualità narrativa si scontrano. Il tipo di scrittura, elogiata in altre recensioni, per me risulta pesante e verbosa.

SPOILER ALERT

La storia parla di una nave cargo in rotta verso le Antille, della sua capitana e dell’equipaggio. La capitana è una donna competente, razionale, precisa, abile sia nella navigazione che nel gestire gli equipaggi; sa come mantenere in perfetto equilibrio tutti gli elementi che rischierebbero di provocare un disastro se lasciati incontrollati.

In un raro momento in cui, ed è la prima a sorprendersene, rilascia lievemente il proprio autocontrollo, acconsente alla richiesta dell’equipaggio di fermare le macchine in mezzo all’oceano, calare una scialuppa in mare e permettere a tutti di fare un bagno. Mezz’ora di vacanza, un tuffo ristoratore nell’oceano, prima di riprendere il lavoro. Lei sola rimane sulla nave a tenere tutto sotto controllo, pronta a intervenire in caso di necessità, mentre tutti i 20 uomini si immergono nudi nelle acque calme al largo delle Azzorre. Ma il bagno in un’acqua profonda chilometri diventa d’improvviso inquietante, ognuno si sente solo, perde di vista i compagni, forse perde perfino se stesso. Quando finalmente risalgono sulla scialuppa e si ricontano scoprono di essere 21 e non più 20. Ma chi è l’uomo in più? Non è che forse hanno contato male prima di tuffarsi?

Ecco il primo fallimento di assenza, c’è qualcosa che non dovrebbe esserci, una persona in più. Ma a differenza del weird, dove la presenza è qualcosa di fuori dall’ordinario, qualcosa che non può passare inosservato, qualcosa di inconciliabile con la normalità, nell’eerie rimane sempre il dubbio di un errore di interpretazione. C’è davvero un marinaio in più o semplicemente c’è stato un errore di conteggio? Anche la capitana non può essere certa, contrariamente al solito non ha messo in ordine tutte le carte d’imbarco, può essere che i marinai fossero realmente 21, o forse, invece, si tratta di un clandestino? Un clandestino che scappa dall’Europa è un’anomalia bizzarra, ma certo non è qualcosa di misterioso.

La nave riprende la sua rotta che la porta a immergersi in un banco di nebbia particolarmente fitta, qualcosa che non dovrebbe esserci a quelle latitudini e in quella stagione. È il secondo fallimento d’assenza che contribuisce a rendere misteriosa l’intera catena di eventi. Anche in questo caso non si tratta di un evento impossibile, ma solo improbabile, può essere solamente una perturbazione non segnalata dalle previsioni meteo. Quando la nave inizia a rallentare, apparentemente senza motivo, tutti si affannano a scoprire il guasto e il fatto di non trovarne la causa non significa che si tratti di un evento non naturale.

Ma la capitana inizia a percepire la nave come un organismo vivente, ne sente il cuore battere a un ritmo tutto suo, diverso dal ritmo che gli uomini vorrebbero imporle.

È solo quando la capitana e il secondo si liberano delle rispettive corazze e si abbandonano l’una nelle braccia dell’altro che la situazione si normalizza, la nave riprende velocità, i marinai ritornano a essere 20, e la nebbia si dirada.

Intersecata con la vicenda della nave c’è la storia personale della capitana, il rapporto con suo padre, anche lui capitano ormai in pensione. E qui si inserisce il fallimento di presenza, il capitano al ritorno del suo ultimo viaggio si rifiuta di parlare, non parla nemmeno più con la figlia. Qualcosa è accaduto, le voci che circolano raccontano che la sua nave sia improvvisamente scomparsa per poi riapparire una settimana dopo, senza che chi era a bordo si fosse reso conto di nulla. Ma da allora il capitano che era una presenza costante e rassicurante nella vita della figlia diventa un’assenza, un vuoto dove avrebbe dovuto esserci qualcosa.

Le idee della storia sono buone, ed è evidente che più che gli eventi in sé ciò che conta sono le relazioni fra i personaggi, le loro interiorità, ciò che nascondono anche a se stessi.

Eppure parecchie cose non mi sono piaciute. Il marinaio in più viene individuato molto presto dalla capitana, sebbene non possa esserne assolutamente sicura. Avrei preferito un dubbio mai risolto, i marinai che si ricontano senza mai venire a capo della faccenda, certi che vi è qualcuno in più, ma allo stesso tempo certi di conoscersi tutti quanti. L’espediente del banco di nebbia fitta è forse un po’ banale, credo non ci sia storia di mare e misteri in cui non venga usato.

Ma in realtà ciò che proprio non ho apprezzato è la scrittura. Sembra sempre che l’autrice voglia richiamare l’attenzione del lettore, fargli capire che sta per leggere qualcosa di importante, qualcosa di molto profondo. Ogni frase suona sempre un po’ forzata, troppo ricercata e pesante, le metafore sono ovvie e poco evocative. Tutte le svolte delle storia vengono in qualche modo anticipate, preparate, le senti arrivare già pagine prima che accadano. L’impressione è che l’autrice voglia a tutti i costi comunicare un senso di profondità eccessivo, che voglia caricare il lettore del fardello di trovare uno spessore che forse non c’è. Volendo dare un’indicazione di quanto sia il livello di show don’t tell, in una scala da 1 a 10 direi che siamo verso il 3. La cosa di per sé non è necessariamente un male, ma non è il modo di raccontare che personalmente apprezzo.

Tuttavia altre recensioni sembrano aver trovato notevole il linguaggio poetico che cerca di tradurre in parole le sensazioni profonde dei personaggi. Non voglio quindi dissuadere nessuno dalla lettura di questo romanzo, che, pur non incontrando il mio gusto personale, rimane comunque una lettura interessante e in alcuni tratti sicuramente buona.



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