Rabbits: e si ritorna sempre al bianconiglio

Rabbits: e si ritorna sempre al bianconiglio

Rabbits. Gioca se hai il coraggio è un romanzo che alla sua uscita è stato salutato da critiche molto positive, alcune addirittura entusiastiche. È un libro con una genesi particolare, nasce infatti come podcast, creato dal regista Terry Miles e, successivamente, da lui stesso trasformato in romanzo.

L’idea di base è molto intrigante ed è una di quelle idee che danno ampia libertà all’autore di giocare con il lettore, nascondendo e svelando indizi, cambiando prospettiva sulle cose, disseminando la vicenda di piste false e di tracce più o meno importanti.

La storia è narrata da K, il personaggio principale di cui non conosceremo mai il nome e di cui in realtà non sappiamo nemmeno il sesso: in tutto il libro infatti non viene fornito alcun indizio al riguardo anche se in quasi tutte le recensioni viene definito come maschio, mentre pare che l’autore abbia rivelato che si tratta invece di una ragazza. La traduzione italiana dà per scontato che K sia maschio. In realtà la cosa è assolutamente irrilevante ai fini della vicenda, per cui ognuno è libero di immaginarsi K come meglio preferisce (io mi riferirò al personaggio indifferentemente come maschio o femmina scegliendo a caso).

All’inizio della storia scopriamo che K è un esperta/o di un misterioso gioco, chiamato Rabbits, di cui nessuno sa in realtà molto, nemmeno lo stesso K che tuttavia ha passato anni a seguire le tracce per scoprire qualcosa di preciso al riguardo. Ciò che è chiaro è che Rabbits è un gioco pericoloso, che si sovrappone e si mescola alla vita reale, la cambia, la stravolge in modi imprevedibili e oscuri e chi è davvero coinvolto nel gioco non ne parla mai.

Per potervi giocare bisogna seguire delle tracce, scovare delle discrepanze, notare le coincidenze, fare caso ai pattern, agli schemi nascosti che quasi nessuno nota, ma anche così non saprai mai se stai giocando davvero o se credi solamente di giocare. La nostra protagonista nonostante tutti gli avvertimenti sulla pericolosità del gioco (o forse proprio per quello) si lancerà a capofitto alla ricerca di indizi, spinto dall’incontro con uno dei misteriosi giocatori (e vincitore di un precedente ciclo del gioco) che gli chiederà aiuto per salvare il gioco. Il gioco misterioso, che pare sia attivo sin dai tempi antichi, ma di cui si hanno notizie certe solo dagli anni ’50 sembra infatti essere “rotto” e sembra essere diventato molto più pericoloso.

Seattle è il centro di tutta la vicenda, una location perfetta per l’incontro fra tecnologia e controcultura: la città infatti è il luogo di nascita della Microsoft, ma anche della musica e cultura grunge.

La storia è decisamente intrigante, la scrittura è buona, lineare e mai ricercata, ma funziona bene nel contesto della vicenda. Il romanzo si legge volentieri ed è divertente soffermarsi di tanto in tanto e cercare di districare la matassa con i pochi elementi che si hanno a disposizione. La lettura è furbescamente infarcita di citazionismo, un po’ in stile Ready Player One, e digressioni su videogiochi e musica anni ’80, sul cinema, sulla letteratura in cui a volte il narratore si perde un po’ troppo, ma mai in modo eccessivamente fastidioso.

L’idea stessa del gioco ricorda un po’ la “Lotteria di Babilonia” di Borges e vi sono chiari riferimenti alle Città Invisibili di Calvino, alla Collina dei conigli e molto altro.

Il protagonista è un narratore decisamente inaffidabile, veniamo a sapere che soffre di vuoti di memoria e ha un passato di problemi mentali, e ci si interroga di continuo se quanto racconta sia reale o solo un effetto della sua immaginazione. Nel complesso l’impressione è che sia quel tipo di narratore inaffidabile che non cerca di mentire coscientemente al lettore, ma è invece consapevole almeno in parte delle omissioni e delle distorsioni involontarie presenti nel suo racconto. Questo contribuisce a rendere K un personaggio tridimensionale e interessante, a differenza dei comprimari, alcuni dei quali decisamente troppo piatti e poco interessanti.

Io sono particolarmente attratto dai narratori inaffidabili e dalle trame in cui si ci si deve districare seguendo indizi di cui si deve sempre dubitare (come avviene nei romanzi e racconti di Gene Wolfe), ma qui purtroppo c’è un “ma”, un “ma” piuttosto ingombrante di cui parlerò nella parte di recensione che non spoiler free.

Nel complesso è un romanzo che consiglio a chi apprezza trame intricate e non sente la necessità di avere sempre una realtà solida e concreta sotto i piedi, ma è disposto a esplorare un edificio che cambia di continuo davanti agli occhi.

ATTENZIONE SPOLIER


Non è però possibile fare una recensione completa senza rivelare qualcosa della trama e soffermarsi su alcuni punti particolarmente dolenti.

Il capitolo finale del romanzo è la parte peggiore in assoluto, vorrei quasi esortare i lettori a lasciarlo perdere, perché la storia è sicuramente meglio senza la conclusione sconclusionata.

Ricordate quando alle elementari o alle medie (spero non oltre) l’insegnante vi chiedeva di scrivere un racconto di fantasia e voi vi infilavate in un ginepraio senza uscita da cui vi salvavate con il classico: “Mi svegliai nel mio letto, era stato tutto un sogno”?

Ecco, il finale è esattamente così. Letteralmente. O quasi, comunque ci va molto vicino.

Qui emerge quella perplessità a cui accennavo in precedenza. Io adoro le storie con dei meccanismi complessi, ancora meglio quando questi non vengono mai svelati totalmente dall’autore che distribuisce però sufficienti indizi che consentano al lettore di arrivare a una sua conclusione. Nel migliore dei casi rileggendo il romanzo si vedono le cose in modo un po’ diverso e si arriva a una conclusione differente. Ma si deve comunque sempre avere l’impressione che l’autore sappia come funzionano le cose, magari non te lo dice, non te lo lascia scoprire, ma lui lo sa.

Tutto questo manca in Rabbits, si ha invece l’impressione opposta, cioè che l’autore non abbia la più pallida idea di come far funzionare in modo coerente tutti gli elementi che ha tirato in ballo. Non è il lettore che non riesce a venire a capo della vicenda, è proprio l’autore che non ha la benché minima idea di come funzionino le cose, si è gettato a capofitto in una storia affascinante, ma troppo complessa e che non è in grado di gestire.

Se siete in grado di accettare il fatto che gran parte degli eventi non sarà mai realmente spiegato e vi accontentate di seguire le vicenda della protagonista, allora la lettura sarà abbastanza soddisfacente, ma se siete fra quelli che hanno bisogno che tutti i conti tornino in modo preciso è meglio che lasciate perdere. Le digressioni sconclusionate su multiversi, effetto Mandela, intelligenze artificiali, alieni e molto altro ciarpame, invece di riuscire a essere integrate in qualcosa di coerente sono solo tentativi di gettare fumo negli occhi, ma purtroppo non per nascondere il vero meccanismo della vicenda, quando per nascondere la sua assenza.

Non solo non viene in alcun modo spiegato il meccanismo del gioco, ma si passa allegramente sopra una lunga serie di incoerenze e discrepanze fra le diverse varianti della realtà percepite da K e quelle percepite dagli altri personaggi.

Un altro problema riguarda proprio K, che possiede una capacità straordinaria di riconoscere pattern e schemi nella realtà ordinaria, un’abilità addirittura eccessiva, tanto da diventare un problema mentale. Tuttavia K non è in grado di notare degli schemi estremamente evidenti nella sua stessa vita. D’accordo che certe cose si vedono meglio dal di fuori, però quando risultano talmente evidenti che K stesso non avrebbe potuto non notarle immediatamente c’è qualcosa che non funziona.

Altro problema è dato dal fatto che quasi mai si capisce perché e come K e la sua amica Chloe riescano a fare certe connessioni che portano ai passi successivi verso la soluzione, ci arrivano e basta. Questo è un grosso difetto per un mystery, genere in cui il lettore è abituato a cercare di procedere da solo sulla base degli indizi che gli sono stati presentati fino a quel momento. E anche quando deve attendere la spiegazione data dal detective di turno, guardando indietro può vedere la traccia di briciole di pane che hanno guidato l’indagine fino a quel punto.

In Rabbits non è così, K fa cose e capisce cose, agisce e sa cosa deve fare senza che il lettore possa comprenderne il motivo. Certo, ha questa capacità superiore di scovare i pattern, ma in realtà manca una vera traccia da seguire.

Nonostante questi grossi difetti, Rabbits rimane una lettura piacevole. Purtroppo manca dello spessore e della profondità che finge di avere, ma è comunque un romanzo divertente, ricco di citazioni più o meno evidenti e di riferimenti alla cultura pop dagli anni ’80 in poi.



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