Il Colonnello Ramirez

Incontrai il Colonnello Ramirez quando era ancora un qualsiasi meccanico che lavorava in una delle tante officine nei pressi del porto. Nessuno immaginava cosa sarebbe diventato nel giro di alcuni anni e nessuno avrebbe potuto prevederlo.
A quel tempo non si chiamava nemmeno Ramirez e tantomeno poteva farsi chiamare Colonnello. Il suo nome era Kim Helker. Lo riconoscevi facilmente anche quando era sdraiato sotto una macchina o ripiegato sugli ingranaggi di un Diesel incrostato di sale, tolto da qualche malandata barca di pescatori. Lo riconoscevi dai piedi grandi o dai capelli, così biondi da sembrare bianchi, ma soprattutto dall’incessante borbottio di una conversazione ininterrotta con se stesso, fatta con quel suo strano accento e inframmezzata da parole di decine di lingue diverse, alcune note a lui solo. E il volto era inconfondibile anche nascosto da strati di grasso e olio, i suoi occhi spiccavano vivi e attenti, uno azzurro e uno marrone, segno, a suo dire, di una discendenza regale.
Molti han detto che era pazzo, ma quasi tutti solo dopo la sua morte e comunque nessuno ebbe il coraggio di dirglielo in faccia. Alcuni sostennero che era diventato pazzo, altri che lo fosse sempre stato. Io che lo conoscevo quando era solamente Kim, l’amico perfetto con cui sbronzarsi con il vino corposo del burbero Dimitris, il gigantesco oste della taverna più lurida e maleodorante della città, posso affermare che a quel tempo non era affatto pazzo.
Anzi, il suo cervello incontenibile formulava continuamente propositi, idee, progetti e riflessioni che raggiungevano immancabilmente la sua lingua appena in tempo prima che il successivo si affacciasse reclamando attenzione ed erano l’origine del continuo borbottio fra sé e sé. E il suo cervello era un cervello di prim’ordine. Non aveva ricevuto alcuna istruzione formale, ma suo padre era stato un avido lettore e aveva insegnato lui stesso a leggere al piccolo Kim quando aveva ancora cinque anni. Le letture del padre spaziavano dai romanzi popolari da pochi centesimi acquistati sulle bancarelle degli zingari ai volumi di filosofia antica ricevuti in dono da un duca, così diceva, in cambio di qualche non specificato servigio. E Kim leggeva tutto ciò che ingombrava la piccola stanza sopra la bottega di ciabattino del padre.
Conosceva la matematica, la poesia, l’astronomia, la filosofia, la zoologia, sapeva conversare di qualunque argomento con chiunque. Una volta assistetti io stesso ad una sua dotta discussione sulle caratteristiche dell’etere cosmico con un famoso professore universitario.
Ma tutto questo avvenne anni dopo la storia che sto raccontando, la storia di come tutto ebbe inizio. A quei tempi Kim non parlava mai delle sue idee, solo ogni tanto si confidava con me, più che altro con dei semplici accenni a ciò che ribolliva nella sua testa.
Forse io solo avrei potuto in qualche modo immaginare le sue intenzioni, io solo sapevo della sua passione per la storia, ma nemmeno io potevo rendermi conto di quanto questa passione fosse viscerale e profonda.
Ero con lui però quando tutto ebbe inizio, o almeno quando i mille frammenti che orbitavano nella sua testa si incastrarono alla perfezione fra loro consolidandosi in quello che è stato definito il più grande sogno o la più grande paranoia dei nostri tempi.
Tornavamo, come spesso accadeva la sera del sabato, barcollando dalla taverna di Dimitris; un po’ sorreggendoci e un po’ sbilanciandoci a vicenda. I nostri passi irregolari risuonavano sul selciato altrettanto irregolare dei vicoli. Ricordo che ad un tratto la Luna scalfì con uno suo raggio il buio profondo di uno stretto viottolo, su cui si affacciavano case pericolanti, annerite da fumo e sporcizia. Kim alzò il viso verso la Luna, affascinato, come se la vedesse per la prima volta. La luce accendeva il suo occhio azzurro di un riflesso fosforescente e creava una pozza di buio marrone nel bianco dell’altro occhio.
«Dimmi, mio caro Diego,» biascicò con voce impastata, «non ti pare che luci e ombre siano più nette questa notte? Come se l’atmosfera si stesse facendo più rarefatta e la luce della Luna fosse davvero una lama che scava dentro blocchi di oscurità?»
Si mosse ondeggiando e temetti che stesse per crollare al suolo, ma in verità stava solo cercando il confine tra luce e ombra. Si fermò con il viso e il corpo divisi esattamente a metà.
«Vedi?» riprese. «Ora io stesso sono tagliato in due, metà luce e metà ombra. Bene e male forse? Chi può dirlo. Non albergano forse entrambi nel cuore di ognuno? Due metà che non riescono a fondersi, come le mie iridi che hanno scelto un colore diverso per ognuna piuttosto che accordarsi su una mescolanza di entrambi.»
Sapevo che se non fossi intervenuto avrebbe proseguito così per ore, o almeno fino a quando non fosse crollato al suolo, troppo ubriaco perfino per accorgersene. Mi accostai a lui e strinsi il suo braccio per tirarlo lungo la nostra strada, ma un grido lontano mi interruppe, una voce di una donna spaventata e rabbiosa.
Ci scambiammo un’occhiata e corremmo come meglio potevamo nella direzione da cui proveniva il grido, non potevamo certo rimanere indifferenti a una richiesta d’aiuto.
Sbucammo un una piazza che ci era sconosciuta; circondata da un porticato, con una statua nel mezzo, si apriva sul mare verso cui spirava una leggera brezza che ci accarezzava le nuche. La statua di un qualche condottiero del lontano passato dominava con la spada sguainata, austera e immobile, impassibile agli eventi; così come si addice a un imperatore.
Una piccola imbarcazione, del tipo usato dai marinai per recarsi a terra quando le loro navi sostavano al largo, prendeva l’abbrivio, staccandosi proprio in quel momento dalla riva. Corremmo nel tentativo di raggiungerla prima che fosse troppo lontana, ma con pochi colpi di remo i due marinai a bordo la spinsero fuori portata dalle nostre braccia. Sostammo barcollando sul punto estremo del molo e la guardammo allontanarsi. Una donna stava ritta a braccia incrociate con lo sguardo verso terra, diretto su di noi. Non sembrava spaventata né rabbiosa e nemmeno ci sembrò che venisse portata via contro la sua volontà. Pensammo quindi che il motivo del suo grido dovesse essere stato diverso da quanto avevamo immaginato. Forse l’alcol che scorreva abbondante nelle nostre vene ci aveva fatto intendere in modo sbagliato.
«Alexsandros.» gridò. «Addio Alexandros. Forse un giorno ti rivedrò, quando il tuo impero sarà risorto.»
Ci fissammo. Stavo scoppiando a ridere, quando l’espressione di Kim mi raggelò. I suoi occhi sgranati non mi vedevano, guardavano oltre, non solo oltre me, ma oltre il luogo e il momento presente. Il suo viso largo e gioviale si era fatto più duro e scorsi in lui una risoluzione che non non avevo mai visto prima di allora.
Voltò le spalle al mare ritornò nella direzione da cui eravamo arrivati. «Vieni. Non possiamo più perdere tempo. Troppe cose ci aspettano.»
Lo seguii docilmente, troppo sorpreso per protestare o per chiedergli cosa intendesse dire. Lanciai un’occhiata distratta alla statua del condottiero. Un giovane robusto, dai capelli scomposti, il naso importante, teneva la spada levata verso il cielo.
Non mi sentivo più ubriaco, avevo solo voglia di andarmene a dormire. L’adrenalina aveva cancellato gli effetti del vino e lo strano comportamento di Kim mi rendeva nervoso. Fu per questo che lo salutai più bruscamente del solito e me ne andai a casa.
Il mattino dopo passai all’officina per bere un caffè con lui prima di recarmi al lavoro, come facevamo abitualmente, ma non lo trovai. Il padrone mi disse che non si era fatto vivo. Preoccupato andai a cercarlo a casa sua. A quel tempo viveva in uno scantinato nel quartiere occidentale, vicino alla famosa Torre dei Mori, un nome totalmente immotivato visto che su quella costa non c’era mai stata una popolazione moresca, né invasori, né coloni.
Lo trovai seduto sul letto a gambe incrociate, circondato da libri, talmente immerso nelle letture e nei pensieri che quando entrai mi salutò appena. Diedi un’occhiata ai titoli, libri di storia antica, manuali di strategia militare, di filosofia. Un grosso quaderno nero era coperto di appunti, diagrammi, simboli incomprensibili.
Si lasciò trascinare in una vicina caffetteria, ma, quando ci sedemmo a uno dei tavolini traballanti con il ripiano consumato e cerchiato da generazioni di bicchieri di birra e di vino, mi accorsi che il suo cervello rimaneva fissato sul suo mondo interiore. Bevemmo il caffè in silenzio e stavo già per andarmene quando mi afferrò un polso e mi tirò nuovamente a sedere.
«Ti è mai capitato di avere una rivelazione?» chiese con voce eccitata. «Voglio dire uno di quei momenti in cui senza rendertene conto capisci tante cose e perfino accadimenti così remoti da averli scordati ti riappaiono vividi sotto una nuova luce.»
Cercai di pensare qualcosa da dire, ma evidentemente il suo era più un monologo che un dialogo. Non mi lasciò il tempo di rispondere e ricominciò a parlare.
«Ora so cosa devo fare e so anche come. E tu sarai al mio fianco. Tu amico mio sarai protagonista di grandi eventi, i nostri nomi saranno sui libri di storia.»
La sua esaltazione mi spaventava, ma era anche trascinante e affascinante. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Ma lì, sul lurido tavolino malmesso di una caffetteria ebbe inizio il suo piano grandioso. Ammetto che, sulle prime, la sua idea mi suonò folle, ma lui non volle sentire ragioni. Mi mostrò il foglio strappato ad un libro di storia.
Un busto greco campeggiava in cima alla pagina. La didascalia diceva che si trattava di una statua di Alessandro Magno e il testo diceva che l’imperatore aveva gli occhi di due colori diversi, come Kim, e come lui aveva il viso largo e il corpo robusto.
«Hai letto?» chiese. «Avevo sempre saputo di avere lontane ascendenze macedoni, ma ieri sera…» si interruppe e vidi la sua espressione cambiare. Sembrava essersi immerso in un sogno. «Ieri sera, quella donna guardava verso di me e mi ha chiamato Alexandros.»
«Ma non la conoscevi, non sai nemmeno chi fosse. E poi non ti chiami Alexandros.» Cercavo di mantenere i piedi per terra e farlo ragionare.
«Non la conoscevo, ma lei conosceva me. Evidentemente ha visto in me qualcosa, forse l’ho conosciuta nei tempi passati, in un’altra vita.»
Mi illustrò il piano dettagliato che stava escogitando. Era folle e avventato, ma la sua sicurezza mi infondeva energia e coraggio. Fu lì che iniziò la marcia che lo portò a organizzare rivoluzioni, rovesciare governi, assumere il comando di un impero sempre più vasto. Tutti avrebbero riso se qualcuno avesse detto loro che ai giorni nostri sarebbe stato possibile creare un impero. Noi che parliamo di democrazia, di libertà. Ma scordiamo sempre che la gente, tanta, tantissima gente, desidera solo certezze. E Kim era una certezza, solida come un blocco di roccia. Era una certezza da seguire con il cuore e la mente, scordando il dubbio. Sapeva trascinare, ma sapeva anche fare appello alla ragione, e le sue idee erano sempre sorrette da un’intelligenza fuori dal comune.
Assunse il nome di Colonnello Ramirez, il perché di questo nome merita un’altra storia. Creò un vasto impero, un coacervo di popolazioni, lingue e culture, che cercava di unire sotto una visione comune. L’idea di un mondo più giusto e più libero.
Un controsenso? Forse. Ma riflettete. Credete forse che gli operai, gli artigiani, gli impiegati, gli insegnanti, tutti insomma coloro che non sono al comando, credete forse che siano più liberi ora di quanto lo fossero nel suo impero o che lo siano stati prima del suo arrivo?
Nossignori. La libertà che lui garantiva alle persone, il diritto a cercare la felicità che lui poneva come base di qualsiasi decisione non sono mai state eguagliate da alcuno dei vostri governi democratici.
E se ho seguito un folle, sono orgoglioso di averlo fatto. E sono felice che quella notte non si sia accorto del nome scolpito sulla statua a cui quella donna gridava il suo addio.
Alexandros.

Libero Seleni



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