Era stata bella

Era stata bella. Di questo ne era sicura. Ricordava benissimo quando il suo seno magnetizzava gli sguardi degli uomini; uomini che si facevano venire il torcicollo per voltarsi a guardarle il culo. Ed anche il suo viso era stato bello. Le bastava sorridere per far inciampare qualcuno.

Aveva avuto parecchi ragazzi e avrebbe fatto meglio a lasciare che l’elenco si allungasse ancora, invece di sposarsi con quel coglione. Che poi non era nemmeno un coglione, solo un poveraccio qualsiasi che l’aveva subito messa incinta.

Ed era stata felice, grassa come un’oca da foie gras con il ventre teso come un otre di pelle, felice per il bambino che cresceva dentro di lei. Certo si era preoccupata, ma solo un pochino, quando il suo corpo non era tornato come prima nemmeno dopo aver partorito. In fondo i seni enormi avevano ancora la loro attrattiva.

Ma poi altre gravidanze avevano seguito la prima e ognuna aveva lasciato qualche segno e molti chili in più sul corpo. Era ancora giovane, troppo giovane per diventare invisibile, ma gli uomini non la guardavano più; se lanciava un sorriso rispondevano aggrottando la fronte.

E così aveva smesso di sorridere. Tirava dritta per la sua strada, con le labbra strette e lo sguardo fissato in una sfida perenne; labbra tirate e sopracciglia aggrottate che un po’ alla volta si erano fissate nella sua fisionomia, trasformando la dolcezza in acidità e la bellezza in un grugno accigliato.

Camminava in linea retta, con passo regolare e costante; non si fermava, non rallentava né accelerava, non cambiava mai traiettoria, che fossero gli altri a scostarsi se non volevano venire investiti dalla sua considerevole massa e dal suo gelido sdegno. Se gli uomini non la degnavano più di uno sguardo avrebbero imparato in fretta ad accorgersi comunque di lei.

 

 

Fermo in colonna accese l’autoradio, tolse la chiavetta USB che sua moglie aveva dimenticato e inserì la sua; finalmente un po’ di musica decente. La voce di Roger Waters iniziò a mormorare le sue strazianti litanie distopiche, non era certo musica adatta alle gite col bambino, ma almeno quando era solo in macchina poteva ascoltare ciò che preferiva.

Il semaforo passò al verde e la scolopendra dalle mille ruote si allungò, si distese fin quasi a spezzarsi per ricompattarsi poi con il brusco stridore di chi, distratto dal cellulare o dai propri pensieri, non aveva notato il ritorno del rosso.

Gettò un’occhiata allo specchietto e tirò un sospiro di sollievo vedendo la macchina dietro di lui fermarsi dolcemente a mezzo metro dal suo paraurti. Tamburellò con le dita sul volante, un po’ seguendo il ritmo della musica e un po’ quello dei suoi pensieri.

Il semaforo all’incrocio scattò al verde e le macchine si affrettarono per passare prima che riapparisse il temuto arancione.

Con la coda dell’occhio percepì, più che vedere, una donna, dall’aspetto e il cipiglio di un carro armato in battaglia, accingersi ad attraversare l’incrocio con passo deciso, incurante del semaforo rosso e del traffico.

Saltò sul freno, premendolo a fondo con così tanta forza da farsi dolere il quadricipite.

La donna non mutò percorso né espressione e rimase impassibile anche quando la macchina, sospinta in avanti da quella dietro che le si fracassava nel retrotreno, balzò su di lei schiacciandola sull’asfalto.



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