Le sette morti di Evelyn Hardcastle: ovvero un Matrix in cilindro e redingote

Le sette morti di Evelyn Hardcastle: ovvero un Matrix in cilindro e redingote

Le sette morti di Evelyn Hardcastle, di Stuart Turton, è un buon libro. È un libro che vale la pena leggere, con una struttura complicata e ben congegnata. Non è, però, un libro di facile lettura, vi sono molti personaggi che interagiscono fra loro e il racconto degli eventi non è lineare, non segue la normale scansione temporale, per cui è necessaria una certa attenzione per non fare confusione.

È stato definito un misto fra Agatha Christie e Incpetion, oppure Agatha Christie e Il giorno della marmotta, oppure Agatha… insomma Agatha Christie c’è sempre, in accoppiata con qualcosa di bizzarro. Queste definizioni danno un’idea sommaria, ma abbastanza corretta del romanzo.

La storia è quella di un’indagine su un delitto ed è ambientata in una grande villa, in un’epoca imprecisata, ma che possiamo supporre corrisponda ai primi del novecento e richiama alla mente romanzi come Dieci piccoli indiani o Assassinio sull’Orient Express. Ma la realtà non è affatto quella che sembra, le cose si complicano, perché il protagonista si ritroverà a dover rivivere più e più volte un’unica giornata che culmina invariabilmente con il delitto di cui deve scoprire il colpevole.

Stuart Turton è un David Mitchell più bravo, ma meno bravo

A me sono venuti in mente altri riferimenti letterari, oltre a quello della già citata Agatha Christie, in particolare ho trovato molti punti in comune con i romanzi di David Mitchell. Direi che Stuart Turton è un David Mitchell più bravo, ma meno bravo.

È più bravo perché la sua trama intricata e complessa funziona a meraviglia, proprio come nei migliori libri gialli è un meccanismo a orologeria ottimamente congegnato. E le trame sono uno dei più grossi problemi di David Mitchell.

È meno bravo, perché la scrittura di Turton, seppure non male, non arriva assolutamente ai livelli di qualità, molto più alti, di quella di Mitchell.

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da qui in poi ci saranno spoiler

Come in Cloud Atlas (L’atlante delle nuvole) di Mitchell, molti personaggi legati fra loro affollano la vicenda, ma qui il legame è molto più forte. I vari protagonisti sono infatti la “reincarnazione” della stessa persona, Aiden Bishop, la mente (o l’anima) dell’uomo incaricato di risolvere il delitto. Nel libro di Mitchell il legame era talmente labile che il suo romanzo è sicuramente migliore se letto come una serie di racconti piuttosto che come un unico romanzo in più parti. Ne Le sette morti…, invece, vi sono otto personaggi in cui si incarna Bishop nel corso della giornata, o meglio, nel corso di otto giornate soggettive in cui vivrà le otto vite di otto uomini in un’unica giornata. Gli otto uomini interagiscono fra loro, si conoscono, comunicano, le incarnazioni successive conservano i ricordi di quelle precedenti che invece brancolano nel buio.
Anche I custodi di Slade House, sempre di Mitchell sembra in parte una fonte di ispirazione per il romanzo di Turton, per l’atmosfera del storia e per la presenza di vari protagonisti in qualche modo collegati fra loro.

Nonostante una certa difficoltà nel seguire queste otto vicende che sono allo stesso tempo contemporanee e susseguenti, la trama funziona molto bene. Le cose si incastrano un po’ alla volta, i pezzi vanno al loro posto combinandosi in un puzzle affascinante e complesso. Anche l’ambientazione, ben tratteggiata, contribuisce a donare attrattiva e mistero alla storia. La villa parzialmente in rovina, con il suo parco, il lago, le scuderie e i boschi che la circondano, ha un fascino particolare, un po’ gotico, che richiama alla mente l’atmosfera di decadimento della Casa degli Usher.

I protagonisti sono interessanti e le differenze fra le varie incarnazioni sono nette e ben mostrate.

Tutto sommato quindi un libro che vale la pena leggere se vi piacciono i misteri e non vi spaventano le stranezze.

Vi sono però alcuni lati negativi, o quantomeno delle cose che mi hanno lasciato dubbioso.

A un certo punto si inizia a comprendere che questa serie di reincarnazioni è pilotata da qualcuno e a mano a mano che le informazioni si accumulano si inizia a intravvedere cosa c’è dietro tutta la faccenda che viene comunque rivelata alla fine.

Scopriamo così che tutta la vicenda è una “prigione mentale” congegnata per punire e redimere, se possibile, i criminali. (L’idea ricorda un racconto di fantascienza di parecchi anni fa (forse di Zelazny?), in cui un esperto di sicurezza sfidava un esperto di fughe richiudendolo proprio dentro una prigione mentale.)
L’autore non ci spiega nulla del mondo esterno, ma si può supporre che questa prigione mentale sia creata mediante una tecnologia futuribile piuttosto che con la magia o altri sistemi. Il protagonista è entrato di sua spontanea volontà in questa prigione, a differenza dei suoi avversari/alleati, un uomo e una donna che sono i veri prigionieri, dei criminali colpevoli di delitti atroci, ma non ben precisati. È solo il fatto di aver scelto spontaneamente la reclusione che da al protagonista il vantaggio di poter usare otto incarnazioni invece di una sola per risolvere il mistero dell’omicidio di Evelyn Hardcastle.

Le regole della prigione stabiliscono che chi risolverà il mistero avrà diritto alla scarcerazione e potrà tornare nel mondo reale invece di dover rivivere all’infinito la stessa giornata dentro la simulazione.

E qui cominciano i problemi.

Il primo di tutti è quello che accomuna le vicende che si svolgono “dentro” una simulazione. Per far sì che al lettore (o spettatore) importi qualcosa deve essere ben chiaro che la posta in gioco riguarda anche la vita reale.

Che sia Dark City, o Matrix, Il tredicesimo piano o Sword Art on line, se ciò che accade nella simulazione non fosse rilevante nella realtà ( sempre che ci sia una realtà) non vi sarebbe un grande interesse nella vicenda. A nessuno importa molto se un personaggio dei videogiochi muore, ma la cosa diventa interessante se la sua morte ha conseguenze nel mondo reale, ad esempio la morte del giocatore stesso. Ecco perché i personaggi intrappolati in Sword art on line rischiano di morire nella realtà, o perché la vicenda di Matrix a un certo punto si svolge su due piani, reale e simulato. Ecco perché anche in Ready player one a un certo punto il pericolo passa dal mondo virtuale a quello reale.

Qui Le sette morti… ha un problema. Veniamo a sapere ben presto che la stessa vicenda è già accaduta innumerevoli volte, sappiamo quindi che anche se il protagonista dovesse morire o non dovesse risolvere l’enigma potrebbe sempre ritentare al ciclo successivo. Questo toglie il senso di urgenza alla vicenda e blocca anche l’empatia verso il protagonista. Cosa mi importa di cosa gli succede se tanto non avrà conseguenze a lungo termine?

Inoltre non sappiamo nulla del mondo esterno, anche se intuiamo che esiste, ma non sappiamo come sia, quale vita viva il protagonista, chi sia, cosa faccia. Non c’è un orologio che ticchetta, un motivo per affrettarsi ad uscire dalla simulazione, se non la consapevolezza di essere dentro una simulazione non proprio piacevole.

Se la vicenda dentro la simulazione funziona molto bene, è un meccanismo ben strutturato, non appena si inizia a intravvedere il fuori le cose scadono decisamente.

Viene detto ad esempi che lo scopo di queste prigioni mentali è la redenzione dei criminali, ma allora perché lasciar uscire solo chi risolve il delitto e ne scopre il colpevole anziché chi dimostra di essersi redento?

Perché il protagonista non può uscire, sebbene non sia un criminale e sia entrato volontariamente? Perché far risolvere a dei criminali i casi di delitti del passato? E com’è possibile simulare fin nei minimi dettagli una realtà i cui dettagli non si conoscono? Prendiamo il caso di un delitto avvenuto ai primi del novecento, com’è possibile simulare tutti i personaggi coinvolti, la loro psicologia, le loro motivazioni, le loro azioni, se non sono conosciute? E non possono essere conosciute, altrimenti il colpevole del delitto sarebbe già noto. Oppure non si tratta di una simulazione, ma di un viaggio nel tempo e i criminali (e il protagonista) vengono proiettati indietro nel tempo nelle menti di persone vere? La sensazione è che si tratti di una simulazione, ma in realtà l’autore si mantiene nel vago.

Se, quindi, la vicenda “dentro la cornice” funziona, non si può dire lo stesso della vicenda al di fuori. Ma un altro problema del romanzo è che, a un certo punto, ci interessa di più scoprire il fuori che risolvere il delitto o salvare la donna che dovrà essere uccisa. L’interesse del lettore si sposta dalla parte migliore del romanzo a quella peggiore. Si va avanti a leggere più per scoprire perché il protagonista è rinchiuso nella simulazione piuttosto che per scoprire l’assassino che diventa una faccenda tutto sommato secondaria. Il nome dell’assassino serve come chiave per sfuggire alla simulazione, ma scoprirlo non è più l’asse portante della storia, il vero obiettivo per il lettore è scoprire cosa c’è dietro alla prigione mentale.

Vale la pena spendere qualche parola sul famigerato arco di trasformazione del personaggio. Aidan Bishop, nel corso della vicenda, compie un piccolo arco di trasformazione. Dal disprezzo che prova per alcune delle sue reincarnazioni passa all’apprezzamento delle capacità e dei lati positivi delle persone in cui si ritrova a vivere e comprende che senza sfruttare le capacità dei suoi ospiti non potrà mai scoprire la verità.

C’è però un arco di trasformazione più ampio, che ci viene solo raccontato. Veniamo a sapere che Bishop è entrato nella prigione mentale con lo scopo di vendicarsi dell’assassina di sua sorella. Nel corso dei trent’anni, che passerà rivivendo continuamente la stessa giornata, avrà modo di cambiare, di scordare l’odio e di scoprire la pietà e l’affetto. Ma questa sua trasformazione non la vediamo in alcun modo, così come non vediamo la trasformazione dell’assassina in una persona migliore. la sensazione è che la parte cruciale della vicenda venga riassunta in poche frasi.

Il meccanismo delle otto reincarnazioni che interagiscono è davvero notevole e vale la pena leggere il libro per come l’autore ne sa gestire la complessità, ma sebbene sia un buon romanzo non è l’opera geniale che ci si poteva aspettare dalle molte recensioni entusiastiche.



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