Breve riflessione sulla pandemia con spunti per scrittori e creativi.
Ci sarà un prima e un dopo il Coronavirus (Covid-19)?
Non mi sto chiedendo se l’umanità sopravvivrà alla pandemia di
Covid-19, a meno che il virus non muti in modo drastico il suo
livello di letalità non è altissimo, per cui l’umanità dovrebbe
farcela a superare la crisi.
Ancora non sappiamo come andrà a finire, sul
piano individuale nessuno è sicuro di farcela (forse nemmeno chi è
già guarito), ma a livello globale la popolazione umana non si
ridurrà drasticamente.
Certo resteranno i drammi individuali e familiari, ma nel complesso l’impatto del virus sarà più che altro di tipo economico e sociologico. Con questo non voglio certo mettere in secondo piano l’impatto che il virus ha e avrà su chi ne è colpito e sui familiari delle vittime, sarà una cosa devastante da cui servirà tempo per riprendersi. Ogni vita è importante e ogni morte è una perdita, ma sul piano globale, l’intera umanità non dovrebbe risentirne.
Ciò che realmente mi domando, invece, è se questa pandemia segnerà
uno spartiacque, un punto di svolta, oppure no. Passata la paura
torneremo alla vita di sempre, oppure ciò che sta accadendo ci avrà
insegnato qualcosa, avrà fatto nascere qualche riflessione?
Questa pandemia segnerà un punto di svolta?
Comunque vada, nel complesso possiamo ritenerci
fortunati, il coronavirus covid-19 ha un livello di contagiosità
calcolato fra R0 2,2 e R0 4 (ogni contagiato, in media contagia da
due a quattro persone), e una letalità stimata attorno al 2,5%,
anche se in Italia arriva quasi al 10%: significa che è piuttosto
contagioso e moderatamente pericoloso. Il potere di contagio, segnato
con R0 indica il numero di persone che un malato può contagiare (si
tratta ovviamente di una media). La letalità indica il numero di
morti sul totale dei contagiati.
Vi sono virus con tassi di letalità molto
superiori, la MERS, una malattia provocata da un altro coronavirus e
diffusa dai dromedari ha una letalità superiore al 34% o l’Ebola
che ha una letalità del 50%.
Vi sono virus con potere di contagio maggiore, il
morbillo ad esempio ha un valore R0 fra 9 e 12.
Nel complesso siamo stati fortunati, cosa sarebbe
accaduto se quei due valori fossero stati più alti lo potete
immaginare leggendo qualche libro di fantascienza catastrofica o
guardandovi qualche film sullo stesso argomento. L’ipotesi peggiore
è quella di un virus con entrambi quei valori alti. Significherebbe
un virus molto contagioso e molto pericoloso, una catastrofe globale.
Covid-19 è una tempesta che non è ancora
passata, mieterà altre vittime e creerà altre situazioni di crisi
in tutto il mondo.
Ma servirà a metterci in allarme per il futuro?
La globalizzazione è qualcosa che non finirà di
colpo, ed è qualcosa con effetti positivi e negativi che non sono mi
stati valutati con attenzione e fino alle loro estreme conseguenze.
Qualcuno, dopo la chiusura dettata dall’emergenza di una parte delle fabbriche cinesi, ha iniziato a chiedersi se la delocalizzazione della produzione mondiale, tutta concentrata in un unico paese (la Cina appunto), fosse una cosa saggia. Se la Cina non fosse riuscita a contenere la diffusione del virus a una sola provincia il mondo avrebbe rischiato di restare privo della sua fabbrica di merci a basso costo, ma teniamo presente che la Cina non produce solo cianfrusaglia di poco valore, produce in realtà gran parte dei prodotti tecnologici di alto e altissimo livello che tutti usiamo quotidianamente e che sono alla base della nostra società contemporanea. Ma la Cina produce anche le nostre scarpe, i nostri vestiti, componenti per le industrie e milioni di altri prodotti indispensabili.
Cosa accadrebbe in uno scenario analogo, ma con un
virus più aggressivo e letale? Anche se fosse contagiata solo la
Cina, l’impatto sul resto del mondo sarebbe enorme.
Improvvisamente ci si è resi conto che in Italia
esiste un’unica ditta produttrice di ventilatori polmonari, troppo
piccola per far fronte alle necessità dettate dall’emergenza
Covid-19. Immagino che vi siano altri paesi occidentali in cui non ce
n’è nemmeno una. Inutile scandalizzarsi dicendo che è una cosa
indegna di un paese civile (come ho sentito dire da un giornalista in
televisione), bisogna invece chiedersi il perché di una situazione
di questo tipo. Non credo che gli imprenditori italiani abbiano
coscientemente deciso di non produrre determinati apparecchi
medicali, se non lo fanno, e se non lo fanno in Italia, significa che
non è economicamente conveniente.
E questo significa che qualcosa non funziona nel
modello capitalistico che bada solo alla riduzione dei costi e alla
massimizzazione del guadagno.
Qual è la soluzione? Stilare una lista di beni
indispensabili di cui si deve avere una produzione minima garantita
autoctona? E quant’è il minimo garantito? E la componentistica
utilizzata da chi li produce? E le materie prime? E quant’è grande
l’area entro cui ci dev’essere tale produzione? I confini
nazionali? L’Europa? O invece zone più piccole o magari aree
geografiche diverse, da individuare secondo nuovi criteri diversi dai
confini nazionali tradizionali?
Non funziona il modello capitalistico che bada solo alla riduzione dei costi e alla massimizzazione del guadagno.
Il secondo problema che ci si è trovati a
fronteggiare, ma in realtà il primo per impatto sociale e per
impatto sulla diffusione del virus, non è sicuramente quello della
produzione e distribuzione della merci, quanto piuttosto quello degli
spostamenti delle persone.
Nel mondo globalizzato moltissime persone si
muovono quotidianamente da un luogo all’altro, anche fra posti
molto distanti fra loro, fra una nazione e l’altra, fra un
continente e l’altro. È una situazione perfetta per favorire la
diffusione incontrollata di un virus. È stato così che il virus è
arrivato velocemente in Europa dalla Cina ed è così che si è
diffuso fra le varie nazioni e i vari continenti.
Come si è visto dall’esperienza cinese e come
speriamo venga confermato da quella italiana, il modo più efficace
per fermare il virus è fermare gli spostamenti delle persone. Cosa
si può cambiare? Impedire gli spostamenti intercontinentali? Ridurli
il più possibile? Stabilire che almeno gli incontri di lavoro
dovranno avvenire tramite meeting virtuali? È davvero possibile
eliminare i contatti personali?
E quando ormai il virus è arrivato in un luogo
come possiamo intervenire? Forse segmentare il territorio potrebbe
essere una soluzione.
Definire tutto il nord Italia “zona rossa”,
chiudere gli spostamenti al di fuori dell’area era una buona idea e
sarebbe stata ottima se tutti l’avessero rispettata.
Purtroppo molte persone, troppe persone, appena è
circolata la voce di bloccare gli spostamenti da alcune zone
d’Italia, si sono precipitate ad allontanarsene senza curarsi
minimamente delle disposizioni restrittive e soprattutto dei motivi
per cui erano state promulgate.
Non condanno l’istinto di fuggire, condanno però
la scelta di dove fuggire.
Se scappo da una pestilenza la scelta migliore è
quella di rifugiarmi in una baita isolata in montagna, dove non ci
sia nessuno che possa infettarmi e dove io stesso non possa infettare
nessuno nel malaugurato caso io sia già ammalato. Certo lo
svantaggio di una baita in montagna è l’impossibilità di ricevere
aiuto medico nel caso appunto fossi fuggito troppo tardi e stessi
portando il virus con me.
Purtroppo invece, la maggior parte di quelli che sono fuggiti hanno scelto di tornare ai loro luoghi d’origine, dove presumibilmente hanno parenti anziani, nonni, genitori, zii, proprio le persone più a rischio con questo tipo di malattia. Questa fuga in massa ha ovviamente contribuito a esportare il virus in zone del paese dove non si erano registrati casi di infezione. Ancor più da condannare sono quelli che hanno scambiato i provvedimenti di chiusura di scuole e uffici, come delle insperate vacanze aggiuntive e si sono precipitati in zone di villeggiatura montane e marittime. Pare che nella sola Sardegna più di tredicimila persone siano arrivate dalle zone infette pensando di farsi una bella vacanza al mare, senza minimamente pensare alle possibili conseguenze del loro gesto. Compresa quella di ritrovarsi ammalati in una regione d’Italia con strutture sanitarie inadeguate a far fronte alla calamità. E la stessa cosa è accaduta in molte altre regioni del sud.
Non condanno l’istinto di fuggire, condanno però la scelta di dove fuggire.
Detto fra parentesi, l’emergenza coronavirus ha
messo anche in luce le abissali differenze fra le regioni del nord e
molte regioni del sud. Non voglio cercarne o discuterne i motivi, ma
forse qualcuno finalmente capirà che tangenti, speculazioni, appalti
truccati, tutti i vari modi per rubare soldi allo stato non sono
rubare soldi a nessuno, sono rubare possibilità di vita, magari
anche a se stessi e ai propri familiari.
Dunque com’è possibile segmentare efficacemente
un territorio per impedire la diffusione di un virus?
In Giappone insegnano ai bambini, fin dall’asilo,
come comportarsi in caso di terremoto, forse l’intero pianeta
dovrebbe fare qualcosa di analogo, insegnare a tutti, fin da bambini,
come comportarsi in caso di pandemia.
Ma se l’educazione non basta? Cosa fare se la
gente insiste ad andarsene in giro diffondendo il contagio? È
pensabile creare delle zone rapidamente isolabili dal resto di un
paese? Si creano dei confini permanenti, ma disattivati da attivare
in caso di necessità? Si crea una task force apposita, un
reparto dell’esercito pronto a intervenire e a creare,
all’occorrenza, delle zone di confino dinamiche?
Ma sarebbe in grado una democrazia di continuare a
esistere in una situazione di questo tipo? O la tentazione di usare
questi metodi anche per bloccare eventuali proteste o manifestazioni
di dissenso sarebbe troppo forte?
Ciò che sta accedendo è una specie di prova
generale, una prova che non abbiamo superato. Se un giorno arriverà
un virus più contagioso e più letale, il disastro che ne seguirà
sarà solo colpa nostra se non avremo ripensato il nostro modo di
vivere.
Ciò che sta accedendo è una specie di prova generale, una prova che non abbiamo superato.
Le mie sono solo alcune delle molte riflessioni che si potranno e dovranno fare su ciò che sta accadendo, alcune delle molte domande che dovremo porci.
Io non ho risposte a queste domande.
Probabilmente nessuno ha le risposte in questo momento, ma si può e si deve cominciare a immaginare il futuro.
E per farlo, nessuno è più attrezzato degli
scrittori di fantascienza. Perché il compito della fantascienza,
della “buona” fantascienza, è mettere a nudo i limiti del
presente e ipotizzare il futuro. Non saranno gli scrittori a trovare
le risposte, ma potranno essere loro a stimolare il dibattito, a far
nascere idee a far scoccare in altri la scintilla giusta.
Gli scrittori possono ragionare sul presente e
immaginare i futuri, quelli verso cui ci potremo incamminare con
speranza e quelli che dovremo assolutamente evitare.
È stato facile, fino ad oggi, immaginare virus
letali che hanno portato alla quasi estinzione dell’umanità, ora
dobbiamo iniziare a immaginare qualcosa di diverso, immaginare un
mondo in grado di rispondere a sfide di questo tipo.
Si può e si deve cominciare a immaginare il futuro, e per farlo, nessuno è più attrezzato degli scrittori di fantascienza.
Ma non sono solo gli scrittori di fantascienza a
poter fare qualcosa per aiutare il mondo a capire e ad affrontare la
pandemia.
La situazione può fornire spunti anche a scrittori fantasy o di altri generi, ma ancor più a chi desidera restare ancorato al realismo. Non ci sono da raccontare solo gli sforzi eroici di medici e infermieri, si può scrivere anche di chi pedala in una città apparentemente deserta per consegnare cibo o pacchi indispensabili, si può parlare di chi lavora nell’igiene urbana o di chi tiene aperti i servizi fondamentali. Ma si possono anche raccontare le tensioni che si creano fra chi vive la quarantena forzata, o gli amori che rinascono, le scoperte e le riscoperte all’interno dei nuclei familiari.
Come sempre le storie da raccontare sono infinite e, come sempre, alcune di esse potranno rivelarsi fondamentali per consentirci di capire ciò che stiamo vivendo e per consentirci di affrontare le sfide future nel modo migliore.
Le storie da raccontare sono infinite, ma alcune di esse potranno rivelarsi fondamentali per consentirci di capire ciò che stiamo vivendo.
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