Rosa Hernandez e lo spazio tempo
Rosa Hernandez aveva una certezza nella vita. A novantotto anni era sicura di aver fatto tutto quello che aveva da fare. Aveva allevato sei figli e li aveva aiutati ad allevare i nipoti e perfino i pronipoti. Aveva accudito suo marito per tutti gli anni del loro matrimonio, finché lui non era morto, cinque anni prima. Aveva sempre pregato e perfino ora non scordava mai di accendere ogni mattina una candela davanti alla stampa di Nostra Signora di Gudalaupe che teneva in soggiorno. Era soddisfatta della sua vita e sapeva che un giorno, presto, l’Arcangelo Gabriele si sarebbe presentato per portarla via. Sapeva che sarebbe stato l’Arcangelo Gabriele perché da sempre si rivolgeva a lui nelle preghiere per farle arrivare a Dio, fin da bambina, quando un’anziana del paese le aveva regalato un santino dell’Arcangelo che lei teneva ancora con se.
Non fu quindi troppo sorpresa quando un giorno sentì un lieve bussare alla porta della biblioteca di suo marito. Non era una vera biblioteca in realtà, ma era stata la stanza preferita di suo marito, con una comoda poltrona e due scaffali zeppi di libri, i suoi amati libri. Era stato un lettore accanito e quella era la sua stanza, dove si rifugiava tranquillo per dedicarsi alla lettura. Da quando lui era morto la teneva chiusa a chiave, non voleva che qualcuno dei pronipoti vi caracollasse dentro e mettesse tutto soqquadro.
Certo non riusciva a immaginarsi il motivo per cui l’Arcangelo Gabriele dovesse arrivare da una stanza chiusa piuttosto che dalla porta principale o da una finestra, ma non bisogna mai mettere in discussione i disegni del Signore.
Il bussare delicato si ripeté. Corse a prendere la chiave che teneva sopra la credenza della cucina, mormorando una preghiera. Le tremavano le mani quando finalmente riuscì a infilarla nella toppa. Girò la chiave e spinse piano, solo quel poco per far capire all’Arcangelo che la porta era aperta. Indietreggiò appoggiandosi con una mano alla parete, voleva sedersi sulla sua poltrona per accogliere l’Arcangelo. Sapeva che avrebbe dovuto stare in piedi, o magari in ginocchio, ma era vecchia e le gambe le facevano male; l’Arcangelo avrebbe capito senz’altro.
Lunghe dita delicate si insinuarono nello spiraglio della porta. Le fecero venire in mente le antenne delle lumache. Che pensiero irrispettoso, se ne pentì subito, ma non riuscì a scacciare quell’idea. La porta si aprì del tutto e una grande massa di colore verde azzurro scivolò fuori senza far rumore.
Rosa sapeva che le vie del signore sono infinite, ma era quasi altrettanto certa che quella cosa non fosse l’Arcangelo Gabriele.
La cosa sulla porta sembrava non avere una forma definita, tranne per una casco che le copriva una specie di testa, tutto il resto era mutevole. L’essere si muoveva con lentezza, sfiorando appena le cose nonostante la massa, fluì sul divano dove assunse una forma più compatta. Pochi istanti dopo sulla porta comparve un secondo individuo. Era piccolo, alto meno di un metro, coperto da una bizzarra tuta arancione, anche lui indossava un casco. Era l’opposto del suo compagno, rigido come un blocco di legno camminava con piccoli passettini saltellanti. Raggiunse anche lui il divano e vi si appoggiò con la schiena, come una grossa bambola di cera.
I due esseri fissavano affascinati la televisione accesa, distogliendo ogni tanto lo sguardo per guardare Rosa.
«Voi,» provò a dire la signora Hernandez, «non siete angeli, vero?» La voce le uscì appena, ma i due esseri dovevano averla udita perché prima si girarono l’uno verso l’altro e poi verso di lei. A dire il vero il piccoletto tutto rigido ruotò la testa poco poco, mentre l’altro sembrò fluire nella sua direzione.
«Stiamo, imparando.» le parole scandite separatamente una dall’altra sembrarono provenire da quello verde azzurro. Non si vedeva una bocca vera e propria, ma qualcosa vibrava dentro il casco. La voce ricordava il ronzio di uno sciame di api o un coro lontano modulati in modo da assumere la forma e i toni delle parole.
Rosa rimase tranquilla, non sapeva del resto che altro avrebbe potuto fare. Se avesse chiamato la polizia l’avrebbero presa per pazza e rinchiusa in qualche istituto e lo stesso avrebbero fatto i suoi figli e i suoi nipoti. E lei non voleva finire in quei posti, voleva essere a casa sua quando l’Arcangelo fosse arrivato a prenderla. E comunque i due esseri non facevano nulla di male, sedevano educatamente sul divano guardando la tv. Le erano capitati ospiti molto peggiori. Le scocciava però che stessero trasmettendo una stupida telenovela, non voleva fare brutta figura con loro. Prese il telecomando e cambiò ripetutamente canale finché non trovò un telegiornale. I due esseri osservarono il telecomando con interesse, poi quello fluido allungò un tentacolo, lo afferrò con le sue dita sottili e si mise a schiacciare i tasti.
Rosa seguì per un po’ i continui cambi di canale, ma presto si assopì, cullata dal mormorio della televisione. Si risvegliò sentendo un tocco leggero su una spalla. L’alieno fluido protendeva un lungo arto sottile verso di lei.
«Ci scusi signora.» la strana voce ronzante riprese a parlare con maggior sicurezza. «Stavamo imparando la vostra lingua.» Un arto si protese a indicare la televisione. «Ora possiamo spiegare perché siamo qui.»
Rosa impiegò un istante per risvegliarsi e comprendere di non aver sognato. Due esseri bizzarri erano realmente seduti sul divano di casa sua.
«Siamo due scienziati. Stavamo facendo un esperimento per creare dei wormhole, dei portali per viaggiare nello spazio. Vede, noi siamo in grado di spostarci nell’universo attraverso delle specie di gallerie che accorciano le distanze. Ma dobbiamo muoverci con delle astronavi, attraverso le gallerie che troviamo già pronte. Capisce quello che stiamo dicendo?»
Rosa annuì.
Qualunque terreste si sarebbe stupito nel vederla annuire. L’idea che una vecchia signora, abitante della periferia di Monterrey, potesse comprendere ciò che gli alieni cercavano di spiegarle potrebbe sembrare strana a chiunque. Ma Rosa aveva una miriade di nipoti che quando erano bambini avevano trascorso lunghi pomeriggi a casa della nonna. E una cosa che facevano sempre era guardare la tv. Quello che preferivano erano i telefilm o i cartoni animati di fantascienza. Rosa amava i suoi nipoti, e le piaceva godere della loro presenza fisica. Sedeva in mezzo a loro, davanti alla televisione e li guardava affascinata mentre loro, quasi ignari della sua presenza, fissavano lo schermo e dopo un po’ anche lei si lasciava attrarre da quelle storie incredibili. E così, nonostante l’età e nonostante avesse frequentato a mala pena le scuole medie i concetti di viaggi nel cosmo, wormhole e tunnel spazio-temporali li aveva assorbiti nei lunghi pomeriggi con i nipoti.
«Bene,» riprese l’alieno, «noi stavamo cercando di creare un tunnel in laboratorio. E direi che ci siamo riusciti. Solo che non dovevamo sbucare qui. A dire il vero non sappiamo nemmeno dove siamo, avremmo dovuto trovarci in un laboratorio gemello del nostro, solo su un altro pianeta.»
«Spero non vi dispiaccia di essere arrivati qui.» rispose Rosa. «Vorrei offrirvi qualcosa, ma non ho idea di cosa potreste gradire. Non siate qui per farci del male, vero?»
«Assolutamente no. Non deve preoccuparsi di questo. Siamo scienziati, non vogliamo fare del male a nessuno. E non si preoccupi, non possiamo toglierci i nostri caschi, per cui non potremmo assaggiare nulla. Lei è molto gentile, sa avevamo un sacco di paura prima di incontrare lei.»
«Paura? E di cosa?»
«Vede quando ci siamo accorti di non essere nel laboratorio dei nostri colleghi non sapevamo cosa aspettarci. Non abbiamo armi con noi e non avevamo idea se avremmo incontrato esseri ostili o amichevoli.»
«Beh siete stati fortunati, penso.» Rosa si mise bella dritta sulla poltrona. «Mi sono sempre vantata di aver accolto con gentilezza tutti coloro che sono arrivati alla mia porta, e non intendo cambiare ora. Certo non potete andarvene in giro. Non tutti sono come me sapete?»
«Siamo stati fortunati, lo sappiamo. Abbiamo guardato la sua televisione e abbiamo imparato molto. Siete una razza violenta e pericolosa. Se non le spiace vorremmo imparare ancora qualcosa su questo pianeta prima di andarcene.»
«Potete restare quanto volete.» rispose Rosa. «Ma ditemi, è faticoso viaggiare in quel tunnel?»
«Niente affatto. È come passare una porta. Si entra in una stanza diversa, solo che è su un altro pianeta.»
«E da dove venite voi non c’è aria, come quella che abbiamo qui?»
«Abbiamo un’atmosfera diversa. Non possiamo respirare qui senza il casco e lei non potrebbe respirare da noi.»
«Ma se…»
Il suono del campanello li fece sobbalzare. «Mamma? Sono io, Maria.»
«Mia figlia. Vi prego, cercate di non spaventarla, è molto emotiva.»
«Arrivo, un momento.» aggiunse ad alta voce in direzione della porta.
Rosa si appoggiò con le mani ai braccioli e fece forza per alzarsi dalla poltrona. Chiuse la porta del soggiorno prima di aprire quella di entrata.
«Ciao mamma.» sua figlia le scoccò un bacio su una guancia.
«Ciao tesoro.» Rosa prese la figlia sotto il braccio e la guidò in cucina. «Ti spiacerebbe prepararmi un tè?» aggiunse sedendosi al tavolo.
«Perché non ti metti comoda in poltrona? Te lo porto appena pronto.»
«No, no. Preferisco stare qui con te, così possiamo chiacchierare. State tutti bene?»
«Si mamma. E tu come stai? Mi sembri stanca.»
«No, sto benone.»
Maria riempì d’acqua un pentolino e lo mise sul fuoco. «Ti prendo il tuo scialle.» disse avviandosi verso il soggiorno.
«No, resta qui.» esclamò Rosa con enfasi.
Maria la guardò sgranando gli occhi. «Che succede mamma? Non ti lascio sola.»
Rosa sbuffò. «Lo so benissimo tesoro. Però c’è una cosa di cui dovrei parlarti. Adesso. Prima che tu vada in soggiorno.»
Maria, sempre più stupita si sedette di fronte alla madre.
«Ci sono due visitatori di la. Sono molto particolari. Prima te lo spiego, poi vai a vedere tu stessa.» Rosa raccontò l’accaduto a Maria che la fissava con aria sempre più preoccupata.
«Oh mamma.» disse infine con gli occhi pieni di lacrime.
«Non sono matta. Vai a vedere se non ci credi.»
«Ti credo mamma, non devi preoccuparti, io ti crederò sempre.» rispose Maria con la voce rotta dal dolore.
«Piantala di fare la cretina. Apri quella maledetta porta e guarda tu stessa.»
Maria si alzò, per far contenta la madre aprì la porta del soggiorno, lanciò un grido e crollò svenuta.
«Ecco, lo sapevo.» borbottò Rosa. Si alzò, bagnò un tovagliolo con dell’acqua fredda e si avvicinò a Maria.
«Vi spiace aiutarmi?» chiese rivolgendosi agli alieni. «Faccio fatica a piegarmi, ma dovrei metterle questo sulla fronte.»
I due alieni si avvicinarono per aiutarla. Presero il tovagliolo dalla sua mano e lo appoggiarono sulla fronte di Maria.
Dopo un istante la donna riaprì gli occhi. Si ritrasse con un urlo quando vide gli alieni accanto a lei.
«Stai tranquilla Maria.» la incoraggiò la madre. «Non vogliono far del male a nessuno.»
«Ce ne andiamo subito.» disse l’alieno azzurro. «Abbiamo imparato parecchio sul vostro mondo e soprattutto abbiamo capito dove si trova. Ora saremo in grado di effettuare le necessarie correzioni al nostro esperimento. Chiuderemo il tunnel verso il vostro mondo.»
«Aspettate un attimo.» disse Rosa. «Torno subito.»
«Mamma. Non lasciarmi sola con loro.» piagnucolò la figlia.
«Calmati dai, sono stai con me tutto il giorno e sto benone. Vengo subito. Non lasciarli andar via.»
Rosa entrò in camera da letto, la si sentì armeggiare a lungo e finalmente emerse, vestita per uscire. In una borsa a tracolla aveva infilato la piccola bombola di ossigeno che il medico le aveva prescritto per le emergenze, ma che non aveva mai usato. Sul volto aveva sistemato la mascherina.
«Sono pronta.» disse. «Vengo con voi, voglio dare un’occhiata al vostro mondo.»
Maria svenne nuovamente.
Rosa si diresse senza esitazioni verso la biblioteca e fece cenno ai due alieni di seguirla.
«Vorrei poter essere di ritorno prima di mezzanotte se non vi spiace. Una signora della mia età non può stare alzata troppo a lungo.»
Libero Seleni