Pirate Freedom: un mix di Salgari e Joyce
Recensione molto difficile e dal titolo impegnativo, me ne rendo conto, ma i motivi ci sono tutti.
Pirate Freedom è uno degli ultimi romanzi scritti da Gene Wolfe e purtroppo, come gran parte della sua produzione, mai tradotto in italiano.
Perché ho tirato in ballo Salgari è evidente fin dal titolo, è un libro che parla di pirati, ambientato ai Caraibi e in certi punti sembra davvero di avere sotto gli occhi qualche pagina del Corsaro Nero, ma Joyce può sembrare decisamente pretenzioso a chi non conosce Wolfe e la complessità delle sue storie.
Eppure Wolfe è uno fra gli scrittori più profondi e complessi, Ursula Le Gun lo ha definito “il nostro Melville” (della Speculative Fiction n.d.a.), Michael Swanwick, qualche anno fa, lo descrisse come il miglior scrittore in lingua inglese vivente, altri l’hanno paragonato a Proust e appunto a Joyce. Tutti questi apprezzamenti qualche motivo dovranno pur averlo.
Pirate Freedom è una delle sue storie più lineari, ma come vedremo si tratta comunque di un romanzo con diversi livelli di lettura.
La mia impressione, leggendolo, è che Wolfe avesse voglia di scrivere una storia di pirati, non ho idea se avesse mai letto Il Corsaro Nero, ma sicuramente conosceva Stevenson e la sua Isola del tesoro e deve aver deciso che era tempo per lui di affrontare un romanzo marinaresco. Però, essendo Wolfe, non poteva accontentarsi di una storia semplice e fine a se stessa, per cui l’ha inserita in un contesto fantascientifico, più complicato di quanto possa sembrare a prima vista e vi ha aggiunto un discorso morale.
Impossibile parlare del romanzo senza farne una breve sinossi, per cui potrebbe esserci qualche spoiler, ma cercherò di non rivelare niente che possa in qualche modo diminuire la sorpresa durante la lettura.
La storia, come sempre nei testi di Wolfe è raccontata in prima persona dal protagonista, in questo caso Chris, un sacerdote di origini italiane che, dopo aver ascoltato la confessione di un uomo che ha ucciso qualcuno, confessa a sua volta di essere un assassino. Dopo aver raccontato le circostanze in cui si è trovato a uccidere dice che l’intera storia sarebbe troppo lunga per una conversazione e promette di metterla per iscritto e di inviarla all’uomo quando sarà terminata.
Inizia quindi a raccontare di quando era ragazzo in una scuola cattolica a Cuba, dopo la caduta del comunismo, in un momento imprecisato del ventunesimo secolo. Sappiamo che si tratta del futuro in quanto il narratore racconta di essere stato ingegnerizzato per diventare molto alto, per volontà di suo padre, in altri punti del romanzo si parla di trasporti su monorataia, per cui possiamo presumere che si tratta di un futuro non troppo lontano da noi.
Dopo qualche anno nella scuola cattolica il ragazzo diventa un novizio e da quel momento perde qualsiasi contatto con il padre che si era trasferito a Cuba assieme a lui per aprire un casinò. Quando viene chiamato a decidere se prendere i voti dice di non sentirsi pronto e lascia il convento.
Arrivato a L’Avana, invece di una metropoli moderna, trova una piccola cittadina di pescatori, non c’è alcuna traccia del casinò di suo padre e nemmeno della città che conosceva. Dopo alcuni giorni in cui sopravvive con furtarelli e piccoli lavori si arruola come marinaio su un veliero. Una serie di circostanze avventurose lo spingono a diventare un pirata e poi capitano di una nave tutta sua. Si innamora appassionatamente di una donna spagnola che diventa sua compagna di avventure e assieme compiono varie imprese piratesche.
Sebbene non vengano mai precisate delle date, sappiamo da alcuni indizi che la vicenda si svolge dopo che Henry Morgan ha bruciato Panama City (1671) e prima del terremoto che ha distrutto Port Royal , Giamaica (1692).
La carriera di un pirata non è certo delle più consone per una persona che si considera in cerca di Dio; Chris tuttavia, sebbene meno crudele di altri corsari, non si tira indietro quando si tratta di uccidere, torturare, saccheggiare o abbandonare gente su una piccola scialuppa in mezzo all’oceano.
La storia, come abbiamo detto, è una lunga confessione scritta dal protagonista dopo aver abbandonato la carriera piratesca ed essere diventato sacerdote, tuttavia in essa non troviamo segni di pentimento o ricerca di redenzione. Non solo, il comportamento del sacerdote ricorda a tratti quello del pirata, in particolare nel punto in cui spiega che per farsi rispettare dai ragazzi del centro giovanile non si fa riguardo a usare le maniere forti.
Io perdono sempre i ragazzi, ma ho scoperto che è meglio abbatterli prima e perdonarli quando li aiuti a rialzarsi. Devono rimbalzare sul pavimento se vogliono pentirsi.
Pirate Freedom
La scrittura di Wolfe è come sempre ottima, in questo libro “sporcata” dall’uso di slang e imprecazioni in italiano. Spesso le azioni dei pirati vengono confrontate con la visione della pirateria nel cinema e nella narrativa moderna, espediente per ricordare al lettore che il racconto è fatto da qualcuno che ha vissuto realmente le vicende che narra, ma che allo stesso tempo possiede una prospettiva storia su di esse. In alcune parti l’autore sembra tirar via in modo sbrigativo, in altre parti sembra soffermarsi troppo su dettagli o vicende di poca importanza, ma trattandosi di Wolfe si capisce che non è l’autore a sbagliare, quanto il narratore, come sempre inaffidabile, che sorvola su certe cose mentre sceglie di metterne in risalto altre.
Il narratore inaffidabile è sempre il punto centrale della narrativa di Wolfe
Il narratore inaffidabile è sempre il punto centrale della narrativa di Wolfe, anche se non è sempre facile comprendere dove stia mentendo deliberatamente, dove nasconda qualcosa, dove distorca parzialmente la realtà, dove sia perfettamente onesto senza tuttavia riuscire a essere oggettivo e dove invece lo sia effettivamente.
Anche in questo romanzo il narratore non ci dice tutto, nasconde, dissimula, dimentica o finge di dimenticare, a volte esagera certi episodi, tutto per nascondere, ma allo stesso tempo per rendere evidente una realtà che si può cercare di scoprire attraverso determinati indizi.
Fin qui sono stato lontano dagli spoiler, ma da qui in poi sarò costretto a rivelare qualcosa di più sulla trama, per poter approfondire i livelli nascosti del romanzo.
SPOILER ALERT
La storia si complica verso la fine, quando Chris torna avanti nel tempo, non esattamente nel momento da cui era partito, diventa sacerdote, ma desidera tuttavia ritornare al diciassettesimo secolo.
I nomi dei personaggi sono importanti e nascondono (forse) qualcosa. Dico forse perché è davvero difficile capire dove Wolfe si diverte a seminare falsi indizi e dove gli indizi sono veri. Il padre di Chris è un wiseguy (uomo = saggio in inglese), un membro della mafia e sappiamo che è molto più basso di Chris, che è stato ingegnerizzato per essere alto; nel libro incontriamo due personaggi (forse uno, perché non sappiamo se si tratta della stessa persona) chiamati Lesage (Le sage = L’uomo saggio in francese) descritti come più bassi di Chris. In alcuni punti della vicenda Lesage sembra sapere troppe cose di ciò che sta per accadere, quasi le avesse lette dalle memorie di qualcuno che le ha già vissute. In un passaggio Azuka (ex schiava ed ex compagna di Lesage) si rivolge a Chris con queste parole “You—you rital!”. Rital è un dispregiativo dato agli immigrati italiani in Francia, ma è una parola nata nei primi del ‘900 e avrebbe potuto conoscerla solo un uomo del futuro. Gene Wolfe, molto attento al linguaggio difficilmente avrebbe usato una parola anacronistica, se non volontariamente.
Certo può trattarsi di una svista, anche Umberto Eco ne Il nome della rosa, introduce sulla tavola del monastero una verdura che non poteva esserci, perché proveniente dall’America, a quel tempo non ancora scoperta; come racconta lui stesso, dicendo di aver corretto nelle edizioni successive del libro.
Può essere successo anche a Wolfe, ma potrebbe essere un indizio accuratamente scelto.
Lesage è il padre di Chris? Viene anche lui dal futuro? O per lo meno è stato in contatto con il padre di Chris o con qualcun altro proveniente dal futuro? Magari con la persona a cui Chris invia la lettera-confessione? In rete ci sono varie discussioni su questo tema, nessuna di loro però parla di un’idea che mi sono fatto leggendo alcune frasi del libro e cioè che Chris non sia esattamente il figlio di suo padre, quanto piuttosto un clone, ma non un clone identico, un clone ingegnerizzato per essere più alto dell’originale.
Altre discussioni vertono sull’identità di Chris e dei suoi compagni: sono pirati realmente esistiti e qui mostrati con nomi falsi? Chi sono? Nel libro vi sono vari indizi e dopo un po’ di ricerche sulla pirateria nei Caraibi mi sono fatto qualche idea, senza tuttavia tratte delle conclusioni definitive. Ricordatevi però che a un certo punto del libro Chris dice che il suo cognome è troppo lungo e difficile per essere pronunciato correttamente o segnalato tramite il linguaggio delle bandiere di segnalazione. Quanto agli altri, quali pirati hanno doppiato lo stretto di Magellano o ci hanno per lo meno provato? Se avete voglia potete dedicarvi a un po’ di ricerche per conto vostro.
Non ho ancora rivelato un’altra complicazione del romanzo, cosa succede a chi resta nel ‘600 quando Chris torna avanti nel tempo? Non lo rivelerò, ma è solo per segnalare che per essere una semplice avventura di pirateria ci sono diverse giravolte della vicenda su cui riflettere.
Questo che ho appena affrontato è il secondo livello della narrazione, ma ce n’è un terzo. Premetto che Gene Wolfe era un fervente cattolico e il tema dalla spiritualità, se non esattamente della religione, è centrale nella sua produzione. In questo caso il protagonista è, almeno per parte della vicenda un sacerdote, quindi i riferimenti alla religione cattolica sono parecchi.
Chris è sinceramente alla ricerca di Dio, ma questo non gli impedisce di agire in totale contrasto con gli insegnamenti di Cristo. In un punto piuttosto controverso della narrazione in cui si parla di abusi dei preti nei confronti dei giovani sembra quasi voler colpevolizzare, in parte, anche le vittime. Chris infatti dice che i sacerdoti sono sicuramente colpevoli, ma che allo stesso tempo, quando si parla di adolescenti, sono essi stessi colpevoli in quanto incapaci di ribellarsi ed estende la colpevolezza all’intero mondo degli adulti, che ha voluto i giovani pecore.
After that I caught it from everybody—all right, to be fair it was not, but it seemed like it. I was blaming the victim. That was one of them, and both the priests who felt like that piled it on strong.
Pirate Freedom
I was encouraging violence. That was the other one and the most popular one. I was blamed for encouraging so much violence that I felt like I might be lynched. I never got a chance to defend myself in the meeting, so I am going to do it here. I was not blaming the kids. I was blaming us grownups for teaching them to be victims.
If you teach a girl to act like a sheep, you do her quite a lot of harm. But if you teach a boy to be a sheep, you do a lot more. If the girl is lucky, there will be boys around to protect her. But they have to be real boys, not sheep. A boy who has been taught to be a sheep will not protect himself or anybody else. If he is molested and does not fight, the people who taught him to be a sheep are at least as much to blame as the molester. Maybe more.
…
Sono stato incolpato per aver incoraggiato così tanto la violenza da farmi sentire come se potessi essere linciato. Non ho mai avuto la possibilità di difendermi durante la riunione, quindi lo farò qui. Non stavo incolpando i ragazzi. Stavo incolpando noi adulti per aver insegnato loro a essere vittime.
Se insegni a una ragazza a comportarsi come una pecora, le fai molto male. Ma se insegni a un ragazzo a essere una pecora, fai molto di più.
…
Ora, prima di lanciarsi contro Wolfe, teniamo presente che il narratore non è l’autore. Non lo è mai: non esiste mai la perfetta corrispondenza fra autore e narratore, nemmeno nelle autobiografie più oneste, sincere e oggettive, inutile pretenderla nella fiction.
Teniamo presente inoltre che il narratore è un uomo che non si è dimostrato restio a sgozzare persone a sangue freddo, a torturare, a saccheggiare e a massacrare con una bastone chiodato un uomo a cui stava stringendo la mano. Tutte attività decisamente poco raccomandabili.
Ma forse il vero punto cardine di tutta la vicenda lo troviamo nel titolo: la parola freedom (libertà) può essere vista in due modi diversi. C’è sicuramente la libertà dei pirati, che contrasta vivamente con le condizioni di vita all’epoca, in generale, e ancor più nel caso dei marinai. La vita su una nave pirata era un po’ più rischiosa, ma era per molti versi più semplice e comoda che sulle navi militari e ancor peggio su quelle mercantili. Inoltre i pirati partecipavano ai guadagni delle conquiste, erano liberi e potevano votare per eleggere un nuovo capitano se quello in carica non godeva dell’appoggio e della fiducia dell’equipaggio.
Il secondo significato di libertà è più legato all’idea del libero arbitrio. Il protagonista, pur nella sua tensione spirituale sincera, si sente totalmente libero di scegliere la propria strada. Vi sono i momenti in cui Chris percepisce la vicinanza di Dio, quando è al timone in mezzo all’oceano o sotto il cielo stellato, ma questa vicinanza non gli impedisce affatto di comportarsi in maniera violenta e crudele.
Il libro parla quindi della libertà di scelta, che tutti gli esseri umani hanno, compresa la scelta di adeguarsi o meno alla volontà di Dio. Come cattolico convertito (scoprì il cattolicesimo tramite la moglie) Wolfe aveva sicuramente ben presente la posizione della chiesa cattolica sul libero arbitrio in contrasto con le idee di Lutero e Calvino.
Non vorrei aver dato l’impressione che leggere Wolfe sia un’impresa faticosa, i suoi libri sono piacevoli da leggere anche senza porre alcuna attenzione al sottotesto, ma la loro bellezza sta nel poterli rileggere più volte, trovandovi dentro sempre qualcosa di nuovo.
Non ho detto se il libro mi è piaciuto o meno. Sì, anche se lo considero il meno interessante fra quelli letti finora dello stesso autore.
Questo è un libro che possiamo considerare semplice fra quelli di Gene Wolfe, chi non lo conosce può quindi farsi un’idea di cosa significa affrontare le sue storie più complesse.
Tenete presente che io mi sto ancora arrovellando su La quinta testa di Cerbero, che ho letto per la prima volta più di trent’anni fa.