Clima
Si chinò per strappare qualche filo d’erba secca. Si ritrovò in mano anche le radici avvizzite che la terra polverosa non riusciva più a trattenere. Tutt’attorno, per chilometri, la stessa situazione. Negli ultimi anni la temperatura media si era alzata, costantemente accompagnata da una diminuzione della piovosità e quelle che un tempo erano praterie e coltivazioni rigogliose erano ormai ridotte a sterpaglie. Lasciò vagare lo sguardo sconsolato. La luce rossa del tramonto trasformava le colline nell’infausto presagio di un deserto infuocato.
«Dottor Stevenson.» Sentì gridare.
Si girò verso la voce che lo stava chiamando.
«Dottor Stevenson, sono Bill Croft del centro ricerche geologiche dell’Arizona.» L’uomo, appena sceso da un fuoristrada stava facendo segni verso di lui. Si incamminò per raggiungerlo. Ogni qualche passo dava un calcio al terreno, nella segreta speranza di trovare qualche punto ancora fertile, ma la punta dei suoi scarponi sollevava immancabilmente nuvolette di polvere. Raggiunse il dottor Croft, un uomo basso e robusto dai folti capelli scuri che gli scosse la mano con forza.
«Dottor Croft, mi fa piacere incontrarla. Sono passato dal suo ufficio a cercarla e mi hanno detto che era qui a prelevare campioni.»
«Non è rimasto molto da prelevare.» rispose sconsolato aprendo la mano e lasciando cadere a terra l’erba secca che aveva stretto nel pugno fino a quel momento.
«Già. È così dappertutto ormai. Il terreno si sta seccando a ritmi accelerati.»
«Le spiace darmi un passaggio se va in città? Sono stato lasciato qui da un collaboratore, ma visto che c’è lei gli eviterei di tornare a prendermi.»
«Sicuro. Salga.»
Il dottor Croft balzò sul sedile del guidatore e mise in moto, lasciandogli a mala pena il tempo di sedersi prima di avviare la macchina sulla strada polverosa.
«Dottor Croft,»
«Possiamo darci del tu se a te non dispiace. Chiamami Bill.» lo interruppe l’altro.
«Ok, Bill. Ho letto le tue email, la ricerca che stai portando avanti è molto interessante. Mi pare che i dati che hai raccolto si accordino perfettamente con i miei.»
«Già. I dati concordano, ma si discostano sempre più rapidamente dai modelli che usiamo abitualmente.»
«I nostri modelli sono sbagliati, evidentemente.» disse Stevenson.
«Naturalmente.» Croft si girò a osservarlo con interesse. «Oppure, c’è un’altra spiegazione.»
«Una nuova teoria? Mi interesserebbe sentirla.»
«Pensavo fossi tu ad averne una.» rispose Croft. «Dalle tue pubblicazioni mi era parso di capire che tu avessi in mente qualcosa. Ne accenni in alcuni punti, se non sbaglio, ma senza dire molto in effetti.»
«Mi sono solamente limitato a rilevare alcune anomalie.»
«Anomalie che tuttavia danno l’impressione di collegarsi ad una causa comune. O almeno è l’atteggiamento che suggerirebbe di tenere il rasoio di Occam.»
Croft sterzò bruscamente infilandosi nel parcheggio di un drive in. «Ti va di mangiare qualcosa?» chiese.
«Mi pare che la decisione sia già stata presa.» replicò Stevenson.
«Scusa, a volte sono un po’ precipitoso. Ma possiamo ripartire se non ti va.»
«No, no.» rise Stevenson. «Non preoccuparti, in effetti ho fame anch’io.»
Scesero dalla macchina ed entrarono nel locale frequentato da camionisti e viaggiatori. Si sedettero a un tavolo e sfogliarono il menu.
«Ho qui una foto che voglio mostrarti.» iniziò a dire Croft, interrotto dall’arrivo della cameriera.
Dopo aver ordinato Croft posò una cartelletta sul tavolo, ne estrasse una fotografia e la passò a Stevenson.
«Di che si tratta?»
«È una foto aerea agli infrarossi di un zona della Francia. È stata scattata di notte.»
«Cos’è questo reticolo di linee luminose?»
«Zone più calde. Ma in realtà non ho idea di cosa le provochi. Come vedi tutto è stranamente luminoso. Troppo caldo.»
«Il terreno irraggia naturalmente calore la notte.»
«Certo. Ma non così tanto.» Croft lo fissava con aspettativa.
Stevenson mise una mano in una delle tasche della giacca e ne trasse un pezzo di metallo che appoggiò sul tavolo. Si trattava di un cilindro del diametro approssimativamente di un centimetro e alto due. La superficie era attraversata da alcune scanalature e zigrinature.
«Cos’è?»
«Ne hai mai visti?»
«Non mi pare. Dovrei?»
«Forse. Se ti capita spesso di camminare in zone inaridite potresti averne visti.»
Croft se lo rigirò fra le mani. «Non saprei. Magari ne ho visti e non li ho notati. Cosa sono?»
Si avvicinò la cameriera con un vassoio carico in mano e appoggiò le loro ordinazioni sul tavolo.
Stevenson attese che si fosse allontanata, prima di riprendere. «Non ho idea di cosa si tratti.» Fissò Croft negli occhi. «Solo dei sospetti.»
«Sono importanti?»
«Hmmmm. Potrebbero.» borbottò Stevenson masticando un boccone.
«Perché non l’hai aperto?»
«L’ho fatto. Non questo. Ne ho trovati altri due. Uno l’ho aperto.»
«E?» Croft addentò il suo hamburger.
«Andiamo nel mio ufficio. Te lo mostrerò.»
Finirono di mangiare senza parlare, pagarono e risalirono in macchina. Croft partì a razzo immettendosi pericolosamente sulla strada. «Allora,» lo incalzò «perché mi hai mostrato quel coso? Cosa c’entra con la siccità?»
«Hai mai pensato che la razza umana ha sempre lavorato per produrre inquinamento e sprecare risorse?»
«Sembri un ecologista fanatico, non uno scienziato.»
«No. Parlo seriamente. Pensa agli antichi romani, bruciavano così tanto carbone da produrre abbastanza inquinamento atmosferico da lasciare tracce nei ghiacci del polo.» Stevenson indicò fuori dal finestrino. Stavano attraversando la periferia industriale. «E noi ovviamente stiamo ottenendo dei risultati molto più brillanti degli antichi romani.»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
«Intanto arriviamo al mio ufficio.» rispose Stevenson indicando a Croft la strada.
Si fermarono ed entrarono negli uffici deserti. Stevenson accese le luci e si sedette alla scrivania. Frugò in un cassetto chiuso a chiave mentre Croft si accomodava su una poltroncina di fronte a lui.
«Bello il tuo ufficio.» si guardò attorno. La stanza era piena di piante che crescevano in colture idroponiche e in vasi dalle forme strane.
«Non pensavo che ne avrei trovati di questi, qui dentro.» aggiunse ironico, indicando un normalissimo vasetto con dei fiori piantati nella terra.
«Ti sembrerà strano, ma la buona vecchia terra è ancora il modo migliore per far crescere le piante.» rispose Stevenson. «Guarda.» Indicò il cilindro aperto che aveva appoggiato sulla scrivania.
Croft si avvicinò per osservare meglio. L’interno era incomprensibile quanto l’esterno, era cavo tranne per alcune sottili barrette intrecciate che sembravano di metallo e ceramica.
«Non ci capisco niente.»
«Nemmeno io.»
«E li hai trovati in zone colpite dalla siccità?»
«In tre luoghi diversi. In tutti e tre i casi il caldo e la siccità avevano reso arido il terreno. E in tutti e tre i casi il terreno si era seccato ad una velocità sorprendente.»
«Vai avanti.»
«Passami quella foto che mi avevi mostrato prima, per favore.»
Croft gli tese la cartelletta con la foto e Stevenson la appoggiò accanto al cilindro aperto.
«Ho provato a farlo vedere ad alcuni amici, gente che si occupa di tecnologia. Nessuno è riuscito a capire di cosa si trattasse.»
«Ma tu hai un’idea. Altrimenti non me ne avresti parlato.»
«Ok.» Stevenson si spinse all’indietro reclinando lo schienale della poltroncina. «Come sei messo a fantascienza?»
Croft lo fissò allibito. «Fantascienza? Beh la leggo, o guardo qualche film.»
«Bene. Allora sai cosa vuol dire terraformare.»
«Certo. Ormai non è nemmeno più un termine relegato alla fantascienza. Ci sono perfino dei progetti per terraformare Marte per renderlo abitabile.»
«Ok. In alcuni di questi progetti si ipotizza di utilizzare microorganismi per modificare l’atmosfera di un pianeta e renderla simile a quella terrestre. Un po’ quello che è accaduto realmente sulla terra tre miliardi e mezzo di anni fa quando i cianobatteri hanno iniziato a rilasciare ossigeno nell’atmosfera.»
«Grazie per la spiegazione.» Croft scoppiò a ridere.
Stevenson arrossì. «Scusa. Dimenticavo che sei un geologo.»
«Fa niente, un ripasso non fa mai male. Comunque dove vuoi arrivare con questo discorso?»
«Fammi finire. Se dovessi terraformare un pianeta quindi potresti usare batteri o altre forme di vita che producano le sostanze che ti servono. Ma potresti decidere di usare dei catalizzatori per accelerare il processo. O qualche generatore atmosferico. Della tecnologia che ti aiutasse per non dover aspettare milioni di anni. Potresti trovare un modo per ridurre i tempi a qualche migliaio d’anni, o forse centinaia se tu sapessi come fare. Se il terreno ad esempio fosse troppo freddo potresti trovare un modo per riscaldarne grandi porzioni.»
«Va bene. Dunque abbiamo forme di vita che modificano la composizione dell’atmosfera e apparecchiature che aiutano il processo. E questo cosa c’entra con noi? Quello che sta accadendo sulla terra non sta migliorando la nostra situazione, la sta peggiorando.»
«Già. La nostra situazione.»
Croft spalancò la bocca. «Stai dicendo che,» fece una pausa per cercare le parole, «noi siamo i batteri che stanno modificando il clima per… qualcun altro?»
«E questi,» Stevenson indicò il cilindro e la foto, «sono i catalizzatori che accelerano il processo.»
Libero Seleni