Vertigini
Non amava indugiare presso le ampie finestre dell’ufficio che dal 132 piano del Worchester building dominavano la città. I colleghi lo sfottevano bonariamente per le sue vertigini, ma erano sufficientemente premurosi da non costringerlo a lavorare in punti dell’ufficio che lo mettevano a disagio. La cosa peggiore era il capo. Non che fosse una cattiva persona, ma aveva la scrivania tremendamente vicina alle finestre a cui dava le spalle. Così quando il capo lo chiamava per discutere di qualcosa si ritrovava seduto proprio di fronte alla grande lastra di vetro incastonata nell’acciaio dell’edificio.
Razionalmente sapeva che non c’era alcun motivo per sentirsi a disagio. Il vetro era abbastanza spesso da reggere l’urto di una sedia scagliata con tutte le forze, non che avesse intenzione di scagliargli contro una sedia, e le finestre non si potevano aprire. Non c’era alcuna possibilità di cadere da lì. Razionalmente era a posto. Purtroppo la razionalità non bastava.
«Ted? Noi andiamo a mangiare, vieni?»
Alzò lo sguardo dal documento che stava leggendo, impiegò un attimo per mettere a fuoco la persona che gli aveva parlato. Paula stava mimando l’atto di masticare un panino. Accanto a lei Brad e Jodie si stavano infilando il soprabito.
«Scusatemi, ma voglio finire questa stramaledetta cosa prima di mangiare. Se mi interrompo mi ci vorrà un’ora per decidermi a riprenderla in mano.»
Si immerse nuovamente nella lettura del documento, ansioso di portare a termine quel lavoro noioso, nella speranza di potersi dedicare a qualcosa di più interessante. Ogni tanto prendeva qualche appunto, finalmente voltò l’ultima pagina con un sospiro di trionfo, chiuse il fascicolo e si guardò attorno. L’ufficio era vuoto, silenzioso, guardò l’orologio; era ancora in tempo per fare un salto a mangiare qualcosa.
Si stiracchiò, si alzò e prese la giacca. Con aria assorta la riappese e si guardò attorno per assicurarsi di essere realmente solo. Fece alcuni passi in direzione della finestra, lottando con se stesso si costrinse ad appoggiare le mani al vetro e a guardare fuori. Immediatamente lo assalì la nausea, una sensazione di disagio così potente da farlo tremare, impossibile da respingere.
Respirò a fondo, si sentì inghiottire dalla città sotto di lui. Un enorme organismo grigio, pulsante di malvagità che protendeva i tentacoli per afferrarlo. Fece appello alla razionalità e alla logica; le strade erano solo nastri d’asfalto e le case nient’altro che cemento, mattoni e acciaio. Ma la logica non è mai tutto. Un riflesso dalla forma bizzarra attrasse il suo sguardo, la finestra di un palazzo molti piani sotto di lui e gli parve di vedere qualcosa. Una minuscola crepa e la ragionevolezza si infranse di colpo con un rumore scricchiolante di ossa frantumate.
Si ritrovò a terra boccheggiante. Si trascinò lontano dalla finestra e attese finché il cuore non si fu calmato. Appena fu in grado di reggersi in piedi corse alla porta dell’ufficio, l’ascensore si aprì e lui inciampò sui colleghi che rientravano dal pranzo.
«Stai bene?» Jodie lo fissò preoccupata.
«Si, si, ho solo bisogno di un po’ d’aria.»
«Ti accompagno.»
«Non c’è bisogno, davvero. Sto bene.»
Jodie lo spinse nell’ascensore e schiacciò il pulsante per il piano terra.
Passeggiarono un po’ in silenzio finché non raggiunsero l’angolo dell’isolato. Jodie lo spinse in un bar e gli ordinò un panino.
«Come fai a sapere i miei gusti?»
Lei rise. «Mangiamo assieme da più di un anno. Credo di conoscere i tuoi gusti meglio di te ormai. Dai, raccontami che ti è successo.»
Addentò il panino e borbottò una risposta a bocca piena. Non voleva fare la figura dello stupido. Sperò che Jodie non insistesse, ma lei non aveva alcuna intenzione di mollare.
«Forza. Dimmi cosa ti è preso. Sei malato?»
«No. Non credo. Non fisicamente almeno.»
«Che vuoi dire? Forza dai, piantala di fare lo scemo e parla.»
«Ok. Prima, in ufficio, ho finito quel documento e stavo per scendere da voi, ma poi mi sono guardato attorno, non c’era nessuno e ho pensato che potevo approfittarne per mettermi alla prova.»
«Metterti alla prova?» Jodie lo guardò sgranando gli occhi. «Che vuoi dire?»
«Quella cosa delle vertigini.» rispose con gli occhi bassi.
«Ma sei scemo? Non è mica una cosa di cui vergognarsi. Un sacco di gente soffre di vertigini.»
«Si, lo so. Il fatto è che,» fece una breve pausa e la fissò negli occhi, «io non soffro di vertigini.»
«Che vuoi dire? Se non riesci nemmeno ad avvicinarti a quella finestra.»
«Lo so.» Si alzò di scatto. «Vieni.» Pagò il panino e uscirono in strada. «Voglio mostrarti una cosa. Ti va di prenderti mezza giornata di permesso? Telefoniamo in ufficio, dico che non mi sento bene e che tu mi accompagni a casa.»
Jodie arrossì violentemente. «Questo darà agli altri parecchio materiale su cui ricamare.»
«Oh. Scusa, se ti imbarazza lasciamo perdere.»
«No, va bene. Andiamo. Cosa vuoi mostrarmi?»
Chiamarono un taxi, salirono e lui diede il nome di un parco dei divertimenti non molto distante.
Jodie gli si sedette accanto. Aveva un profumo piacevole. Inspirò a fondo sperando che lei non se ne accorgesse. Lei gli sedeva accanto, più vicina di quanto si sarebbe aspettato. Sentiva la pressione della gamba di lei contro la sua.
«Cosa vuoi fare al luna Park?» Jodie si voltò a fissarlo.
«Vedrai. Anzi, tu non soffri di vertigini vero?»
«No. Anzi, da ragazzina adoravo le montagne russe e tutto quel genere di cose.»
«Perfetto.»
Scesero dal taxi e si diresse alla biglietteria della ruota panoramica.
«Sei impazzito? Cosa succede se ti senti male quando sei in alto?»
«Non accadrà vedrai.»
La prese per mano e la condusse a sedere in una delle navette della ruota.
Lentamente, una tappa alla volta, la navetta iniziò a salire rivelando un panorama della città sempre più vasto.
Si alzò e si avvicinò alle finestre. Jodie trattenne il respiro. Si girò verso di lei e allargò le mani con i palmi verso l’alto. «Visto? Perfettamente tranquillo. È sempre così, è sempre stato così a dire il vero. Non ho mai sofferto di vertigini.»
Lei si alzò e lo raggiunse, volgendosi a guardare il panorama. «E allora perché in ufficio stai male?»
«Non ne ho idea. Le prime volte che mi è successo pensavo anch’io che mi fossero venute le vertigini. Solo che poi mi sono accorto che mi accade solo li. In qualsiasi altro luogo alto non sento nulla.»
La ruota panoramica aveva raggiunto il punto più alto del suo giro. Ammirarono il panorama della città che si stendeva di fronte a loro. Ovunque c’era movimento di persone e macchine, un flusso continuo che rappresentava al meglio la vitalità di un luogo fervente di attività. La città era viva, milioni di persone che producevano, lavoravano, parlavano, creavano cose, oggetti, arte.
«Guarda.» le disse. «Io ho sempre adorato sentirmi parte della città. Di tutte quelle persone che vivono, soffrono, amano, si impegnano in qualcosa. Tutte contribuiscono a rendere la città qualcosa di più di un semplice luogo. Ma quando guardo da quella finestra» si interruppe, sentì che la voce gli si incrinava.
«Cosa c’è?» Jodie gli accarezzò il viso. Un gesto intimo, una premura diversa da quella di una collega.
Si schiarì la voce. «Quando guardo da li non riesco più a vedere tutto questo.»
Le prese una mano. «Quand’ero piccolo vivevo in campagna, con i miei. Un giorno ho trovato una volpe, morta. Mi sono avvicinato e mi è sembrato che si muovesse. Ho urlato spaventato quando ha mosso una zampa. Poi ho guardato meglio ed erano le migliaia di organismi che la infestavano che la facevano muovere. I vermi che la rodevano dall’interno, gli insetti che strappavano briciole di cibo. Era morta, ma si muoveva.»
Si girò nuovamente verso il panorama. «Quando guardo da quella finestra provo la stessa sensazione.»
«Dai, è solo lo stress del lavoro, ti passerà vedrai.»
La navetta raggiunse il punto più basso e le porte si aprirono. Lo prese per mano e lo trascinò fuori. «Visto che siamo qui, divertiamoci.»
«Ok. Se lo scoprono in ufficio dovrò dire che me l’ha ordinato il medico.» rise lui.
Si fermarono al tiro a segno. «Forza, vediamo chi è il miglior tiratore.» lo sfidò Jodie. «Voglio vincere,» si guardò attorno, «quel pupazzo li.» concluse indicando un pupazzo peloso arancione.
Prese il fucile e mirò con calma. Mise a segno qualche colpo, ma non abbastanza per il premio desiderato.
«Tocca a te.» disse passandogli il fucile.
«Ma no dai, passiamo ad altro.»
«Coraggio giovanotto,» lo incoraggiò il giostraio, «non avrà paura di tenere un fucile.»
Scrollò le spalle. Afferrò saldamente il fucile, appoggiò il calcio alla spalla e sfiorò il grilletto. Espirò con calma. Il peso non era quello giusto, ma gli ricordò sensazioni lontane. L’odore della polvere esplosa, il freddo della canna, il legno del calcio. Suo padre che lo circondava con le braccia e gli insegnava come mirare, come respirare, quando sparare.
Il primo colpo sbagliò di poco. Come prevedeva il mirino non era allineato correttamente. Non troppo fuori, ma nemmeno abbastanza buono da aiutarti a prendere la mira. Corresse il tiro e con calma mise a segno tutti i tiri con precisione. Jodie lo fissò a bocca spalancata.
«Sono un ragazzo di campagna. Te l’ho detto.» rispose con finta noncuranza mentre le consegnava il premio desiderato.
Lei scoppiò a ridere e gli tirò il pupazzo. Uscirono dal luna park e passeggiarono lungo le strade affollate. Si fermarono per la cena in un piccolo ristorante gestito da una coppia di anziani del Costa Rica che li fece sentire a casa trattandoli con calore e gentilezza.
«Stavo pensando,» le disse mentre la accompagnava verso casa, «domani è sabato e l’ufficio sarà vuoto. Ti andrebbe di tornarci con me?»
«Perché? Non ci stai abbastanza durante la settimana?»
«Voglio capire. Mi fa impazzire questa cosa. Da solo non riesco a venirne a capo, ma tu hai visto; non si tratta di vertigini. Devo sapere cosa mi accade a quelle finestra.»
«D’accordo.» frugò nella borsetta per cercare le chiavi di casa. Aprì il portone e si girò verso di lui. «Passa domattina, ma non troppo presto, voglio dormire.»
«Buonanotte.» rispose sorridendo. Si allontanò continuando a fissarla. Lei sorrise e agitò la mano in segno di saluto chiudendo la porta.
Ted chiamò un taxi per tornare a casa. Si sentiva rilassato, Jodie si era rivelata una splendida sorpresa, molto diversa da come se l’era immaginata e aver parlato con qualcuno del suo problema l’aveva aiutato a sentirsi meglio.
Dormì tranquillo come non gli accadeva da mesi e per la prima volta da tempo non fu tormentato da incubi. Si svegliò convinto che tutto fosse passato, che il malessere che sentiva in ufficio fosse ormai un ricordo. Mangiò una colazione abbondante, alzando continuamente lo sguardo all’orologio. Chissà cosa significava “non troppo presto”. Ascoltò un po’ di musica, provò a leggere un libro e si costrinse ad aspettare fino alle dieci prima di prendere la macchina e dirigersi verso la casa di Jodie.
Suonò il campanello e lei schizzò fuori dalla porta in jeans, felpa e scarpe da ginnastica. «Uff ce ne hai messo a venire. Andiamo dai, sbrighiamoci.»
Rimase interdetto, avviò la macchina senza dire nulla e si immise nel traffico rilassato del sabato. Parcheggiarono vicino all’ufficio, una cosa impossibile nei giorni infrasettimanali e salirono in ascensore.
«Potremmo segnare gli straordinari già che ci siamo.» disse Jodie con una risata, accennando al timbra cartellino accanto alla porta.
L’intero edificio, un palazzo di uffici era quasi vuoto. Ted chiuse la porta e appoggiò la giacca alla spalliera della sedia, come faceva ogni mattina.
«Ricordati che non siamo qui per lavorare.» lo canzonò Jodie.
«Lo so, lo so.» Ted si guardò le mani, un lieve tremore lo aveva assalito e tutta la sicurezza che aveva provato appena sveglio l’aveva abbandonato.
Espirò lentamente, a fondo, inspirò muovendo il diaframma, cercò dentro di se la calma della mattina. Un passo alla volta, controvoglia, si avvicinò alla finestra. Jodie lo fissava perplessa con un sopracciglio inarcato. Si sarebbe potuto innamorare di quell’espressione, in un altro momento l’avrebbe trovata buffa e dolcissima allo stesso tempo, ma il nervosismo gli impediva di apprezzarla.
Continuando a fissarla arrivò fino alla finestra. Jodie gli fece un cenno di incoraggiamento. Si costrinse a girare la testa e a guardare fuori. Sentì la nausea assalirlo, ondate di malessere che partivano dal plesso solare percorrevano il suo corpo. Le gambe gli tremavano, si sforzò di restare calmo. Non voleva crollare a terra di fronte a lei.
Sentì la mano di lei posarsi sulla sua spalla. «Ehi, sono qui. Va tutto bene.» gli sussurrò.
Tremando senza controllo alzò una mano a indicare qualcosa. Lei seguì la con la sguardo la direzione del suo dito. Lo stomaco le si strinse di colpo, un conato di nausea la colse improvviso.
Ted indicava una finestra lontana, molti piani più in basso. Uno sgradevole gioco di riflessi la rendeva bianca e lattiginosa. Un grosso punto nero nel mezzo assorbiva la luce con un contrasto dirompente. Sembrava muoversi, senza fretta, verso destra, poi a sinistra, in basso, verso… «Giù.» gridò Ted gettandosi a terra e trascinandola a se.
Jodie tremava, la strinse forte e le tenne il viso premuto contro il proprio petto.
«Era…» La ragazza scoppiò a piangere. «Non riuscivo a muovermi, se non mi avessi tirato giù tu quella cosa mi avrebbe visto.» Alzò lo sguardo a cercare in lui conferma di quanto stava dicendo.
«Era un’occhio.» concluse lui con voce strozzata.
Si allontanarono dalla finestra strisciando e non si rialzarono finché non arrivarono alla porta. Jodie piangeva incapace di fermarsi. «Non riuscirò più a entrare qui dentro. Mai più.»
L’abbracciò stretta. «Voglio fare una cosa. Conosco un tale, fanatico di occultismo, demoni, mostri. Ha un negozio non troppo lontano da qui. Andiamo a parlargli.»
«E cosa vuoi dirgli?» entrarono in ascensore e scesero a piano terra. «Che dalla finestra del tuo ufficio si vede un’occhio malvagio? Che c’è un mostro in città?» Jodie era quasi isterica. «Vuoi che ci faccia rinchiudere?»
«Non lo farà. Anzi, sarà entusiasta, vedrai.»
Ted si incamminò a passo svelto tallonato da Jodie che faticava a stargli accanto. «Che ti prende? Perché sei così eccitato adesso?»
Le tese la mano e rallentò il passo. «Fino a oggi credevo di essere l’unico a provare quelle sensazioni. Anche se sapevo che non si trattava di vertigini ero comunque convinto che fosse qualcosa in me che non andava. Ma oggi è successo anche a te. È qualcosa la fuori.»
«Forse dovremmo andare tutti e due da un medico.»
«Non ci serve un medico.»
«La polizia allora.»
«Loro si che ci prenderebbero per matti. Ascolta, io mi sono sempre considerato una persona razionale, non sono religioso, non credo in alieni, fantasmi o capacità paranormali. Ma quella cosa non era un’allucinazione.»
Erano arrivati in uno dei quartieri vecchi della città, con case basse, piccoli negozi, botteghe di artigiani.
Ted la guidò lungo strade sempre più strette finché non si trovarono in un vicolo cieco. Alcuni scalini scendevano fino ad una porta sotto il livello della strada, sovrastata da un cartello scritto a mano con dei caratteri incomprensibili. In una piccola vetrina erano esposti alla rinfusa alcuni oggetti impolverati, un mazzo di tarocchi, un paio di bastoncini di legno incisi, quattro ampolle di vetro contenenti liquidi colorati e qualche libro malconcio.
«Sicuro che sia la cosa giusta da fare?» Jodie lo fissò dubbiosa.
«Vieni, fidati.» spinse la porta ed entrarono.
L’interno era la versione in grande della vetrina. Pile di libri, oggetti di tutte le fogge, collane e medaglioni con simboli magici, una vecchia scrivania e un divanetto di pelle ingombro anch’esso di cianfrusaglie.
Nella stanza aleggiava odore di polvere e quel vago profumo di libri vecchi.
Un uomo con un paio di grossi occhiali, la barba rossiccia e i capelli lunghi gli venne incontro. «Buongiorno, cosa posso fare per voi?» Guardò sopra la montatura degli occhiali e un lampo gli passò negli occhi. «Ted. Scusami, con questi affari non ti avevo riconosciuto.» Si tolse gli occhiali per appoggiarli sulla scrivania ma sbagliò la misura e li lasciò cadere a terra.
«Scusate.» Si chinò a raccoglierli e osservò dispiaciuto la montatura deformata.
«Lei è Jodie, un’amica.» disse Ted «E lui è Konrad.»
«Molto piacere.» Konrad tese la mano. «È un sacco che non ti vedo. Sei qui per tormentarmi con il tuo scetticismo materialista?» aggiunse rivolgendosi a Ted.
«È meglio che tu ti sieda, stai per avere una grossa sorpresa.»
Jonathan li guardò perplesso. «Sediamoci allora.» Sgomberò il divano buttando a terra le cianfrusaglie che lo ricoprivano. «Forza, racconta. Stupiscimi.»
Ted raccontò tutto ciò che era accaduto, i suoi malesseri, la visione di un mostro tentacolare, l’impressione di un occhio che li stava cercando. Jodie confermava il suo racconto annuendo.
Jonathan scoppiò a ridere. «Stavo per cascarci. E ti sei trovato anche una complice per prendermi in giro.»
Ted spalancò la bocca per protestare.
«Sei un’attore migliore di quanto pensassi. Per un attimo vi avevo presi sul serio.»
Jodie gli prese una mano. «Non stiamo scherzando. Io non volevo venire qui, ma Ted ha insistito dicendo che tu puoi aiutarci.»
Lui la fissò con attenzione. «Ted è il peggior materialista che abbia mai incontrato. Non crede a nulla. E adesso arriva qui con questa storia.»
«È tutto vero.»
Jonathan si alzò e iniziò a passeggiare nervosamente nel negozio. «Un’occhio che vi cercava?»
«Non posso essere sicuro che ci stesse cercando. Ma so che stava per posarsi su di noi. Era come se ci avesse percepiti.»
«E il mostro tentacolare?»
«Non è che io abbia visto un mostro vero e proprio. Era più una sensazione. La città era diversa, sembrava un organismo morto. Non si muoveva nulla, era tutto immobile, le strade erano come tentacoli in putrefazione. Ok, è una follia, lo so.»
«Aiutaci per favore.» intervenne Jodie. «Mi vergogno a dirlo, ma non credo di farcela a tornare in ufficio. Forse è stata solo un’allucinazione provocata dai racconti di Ted. Può essere, ma se penso di tornare al lavoro inizio a tremare.»
Jonathan si avviò verso uno scaffale sul fondo del negozio, rimase fermo a contemplarlo un momento, poi afferrò un libro e tornò verso di loro.
«Guardate qui.» disse mostrando loro un’illustrazione.
Ted lanciò un’occhiata al libro e si girò di scatto. «Scusami, non voglio vomitare nel tuo negozio. Non so cosa sia, ma mi fa lo stesso effetto.»
Jodie era impallidita e stava tremando, con gli occhi spalancati. Jonathan chiuse il libro di scatto. «Scusatemi.»
Ted abbracciò Jodie e la tenne stretta finché non si fu calmata. «Cos’è quella cosa?» chiese infine.
Jonathan si sedette a terra di fronte a loro. «Sarà un po’ difficile da credere, anche se, dopo quello che avete visto, ho l’impressione che molto del vostro scetticismo se ne sia andato.» Prese un cuscino e si mise più comodo. «In alcune cosmogonie primitive si narra che il mondo sia stato creato da divinità molto antiche e inumane. Questi dei hanno creato il mondo non per gli uomini e nemmeno per se stessi, ma per altri esseri molto più antichi degli uomini, esseri mostruosi, almeno dal nostro punto di vista. Queste esseri hanno dominato il mondo per millenni, poi sono apparsi gli uomini. Le due razze erano in lotta fra loro. Gli uomini avevano i loro dei che li proteggevano. La lotta durò a lungo, poi venne siglato un accordo fra gli dei degli uomini e gli altri dei. La Terra era solo uno dei terreni di scontro di una lotta incomprensibile per gli esseri umani. Venne deciso che spettava agli uomini. I mostri vennero scacciati dalla terra, esiliati in altre dimensioni.»
Si fermò attendendo le loro reazioni.
«Continua.» disse Ted, interessato.
«Ok. Alcune mitologie ricordano questi mostri. L’illustrazione che vi ho mostrato è ispirata alle descrizioni dei racconti.»
«E quindi,» intervenne Jodie, «quello che abbiamo visto noi, sarebbe uno di questi mostri?»
«Se non mi state prendendo in giro, direi di si. Non proprio uno dei mostri in effetti. Più che altro una sua manifestazione.»
«Cosa intendi dire?»
«Questi essere antichi sono esseri fisici, come noi. Ma a differenza di noi hanno dei poteri. Dal vostro racconto direi che avete visto una manifestazione di questi poteri. L’antico probabilmente si trova dietro l’occhio. Dietro quella finestra.»
«Ma non dovrebbero essere relegati, altrove?» chiese Ted.
Jonathan afferrò un altro libro dalla pila accanto a lui. «Ecco, ci sono alcune testimonianze raccolte in Polinesia negli anni trenta, poi in Arizona poco dopo la guerra. Se ci si vuole credere ogni tanto questi esseri riescono a tornare sulla Terra.»
«E cosa dovremmo fare? Aspettare che se ne vada?»
Jonathan si schiarì la gola. «Non sarebbe una buona idea. Se si è realmente accorto di voi terrà sott’occhio, scusate non volevo fare dell’ironia, il vostro palazzo.»
Jodie rise. «E cosa accadrebbe se ci vedesse? Verrebbe a cercarci? Un mostro che attraversa la città, sale in ascensore e chiede di noi?»
«Hmmm purtroppo sarebbe qualcosa di molto peggio. Si dice che riescano a impadronirsi della mente umana. Diverreste suoi schiavi e probabilmente finirebbe per aprirvi il cranio e divorare il vostro cervello.»
«Piantala di farle paura. Sei un coglione.» Ted si alzò in piedi di scatto.
«Siete venuti voi a chiedere il mio parere. Voi avete visto quella cosa e direi che vi ha turbato parecchio. Potrei sbagliarmi, ma non credo. La reazione che avete avuto vedendo una semplice illustrazione è significativa.»
«Allora cosa possiamo fare?»
«Andiamo a cercarlo noi.»
«Cosa?» Jodie lo guardò ad occhi sgranati.
«Lo troviamo e lo rispediamo da dove viene.»
«Esiste un’arma per combatterlo?» chiese Ted.
«Vedo che i vostri dubbi stanno svanendo. Ti rendi conto che tu sei quello che non mi ha mai dato ascolto? Non hai mai dato credito a nessuna delle cose di cui ti parlavo. Mai. E ora sei pronto a credere a quella che è forse la storia più folle tra quelle che conosco.»
«Vuoi dire che siamo diventati matti? Che quello ci hai raccontato te lo sei inventato per metterci alla prova?»
«No. È tutto vero purtroppo. Comunque non esiste un’arma abbastanza potente contro di loro.»
«E allora?»
«Però c’è qualcuno più potente di lui. Ricordate la tregua di cui vi ho parlato? Perché regga tutti devono rispettare i patti. Dobbiamo trovare qualcuno che sia in grado di farla rispettare. E credo di sapere come fare.»
«E se ti sbagliassi?»
«Non voglio nemmeno pensarci.»
Jonathan si mise a frugare nel negozio, raccolse alcuni oggetti che infilò in una borsa di cuoio.
«Andiamo.»
«Come mai sei così ansioso di andare?» chiese Jodie uscendo dal negozio.
«Ascolta, è tutta la vita che mi occupo di queste cose. Mi secca dirlo, ma fino ad ora non sono mai riuscito a trovare qualcosa che mi desse la certezza assoluta che, almeno una delle cose in cui credo sia vera. E adesso l’uomo più materialista che abbia mai conosciuto mi offre una prova. Di più, mi offre la possibilità di incontrare di persona il mistero. Non vedo l’ora.» Chiuse la porta. «Forza, ditemi dove si trova questa finestra misteriosa.»
Si fermarono lungo la strada per mangiare un panino. «I mostri si affrontano meglio a stomaco pieno.» disse Jonathan allegro.
Il suo entusiasmo stava contagiando tutti e la ricerca della finestra giusta divenne frenetica.
«Quello è il palazzo con il nostro ufficio. Quella lassù è la finestra da cui guardavamo, per cui l’occhio doveva essere in quella direzione lì.» disse Jodie indicando alcuni palazzi bassi vicino al porto.
Da vicino gli edifici si rivelarono più malandati di quanto pensassero. Uno in particolare era completamente abbandonato, le finestre in frantumi, i muri sbrecciati, tranne l’ultimo piano il cui aspetto era in contrasto con il resto del palazzo.
Ted lo indicò esitante. «È quello.» disse a bassa voce.
«Ne sei certo?» chiese Jonathan.
«Si, sono sicuro.»
«Ok. Vediamo.» Si avvicinarono al portone. I campanelli erano stati strappati, ma una piccola targa pubblicizzava un consulente esperto in rinascita mentale, previsione del futuro e potenziamento del potere spirituale.
L’ascensore non funzionava, salirono varie rampe di scale, ogni piano mostrava l’identico panorama desolato. Porte strappate dagli stipiti, appartamenti vuoti, muri scrostati e sporcizia ovunque.
«Carino.» disse Jodie sottovoce.
«Sst.» Ted si mise un dito sulla bocca.
«Chiunque sia, a quest’ora sa sicuramente che stiamo arrivando. Non serve a nulla fare piano.» interloquì Jonathan.
«Come fai a essere così tranquillo?» chiese Ted.
«Non lo sono affatto.»
«Speravo di si.»
Giunsero all’ultimo piano. Una targa, senza scritte e con un simbolo bizzarro era fissata sopra una porta di legno scuro.
«Cavoli, quello non è ottone. Sembrerebbe oro.» disse Jodie accarezzando la targa.
La porta si aprì. «Proprio così.» disse un uomo molto alto e magrissimo. Aveva i capelli rossi, ricci e lunghi, occhiali scuri e un vestito completamente nero. «Prego, accomodatevi.»
L’interno rivestito con pesanti tappezzerie era arredato con mobili antichi, tavoli e vetrine ingombri di oggetti. Una versione di lusso del negozio di Jonathan. Poca luce filtrava dalle pesanti tende che nascondevano le finestre.
L’uomo si sedette, di spalle alle finestre, ad un grande tavolo in centro alla stanza e fece loro cenno di accomodarsi sulle sedie di fronte.
«Cosa posso fare per voi?» chiese con voce suadente.
«Abbiamo bisogno della sua consulenza.» iniziò a dire Jonathan.
«Non tu.» l’uomo lo squadrò, poi rivolse la sua attenzione a Ted e Jodie. «Loro sono qui per un motivo, lo vedo.» Si tolse gli occhiali. Gli occhi privi di iride e pupilla erano di un bianco lattiginoso. «Anzi, lo sento.» Sorrise, scoprendo con le labbra una quantità decisamente eccessiva di denti, piccoli e appuntiti.
Ted deglutì. «Siamo qui per chiedere il suo aiuto.» Cercò di improvvisare. «Vogliamo fare carriera, ce lo meritiamo. Siamo stufi di vedere tutti gli altri arricchirsi. Vogliamo scoprire il modo per diventare potenti.»
L’uomo rise. «Perdonatemi, ma un po’ banale. Speravo in qualcosa di meglio da voi.»
Si alzò torreggiando sopra di loro. «Lasciate che vi guardi meglio.» aggiunse in tono teatrale aprendo le tende che coprivano la finestra alla sua schiena.
Urlarono. La finestra era un unico, gigantesco occhio, con la curvatura che si protendeva verso di loro. Nel bianco traslucido era incastonata una pupilla di nero assoluto.
L’uomo iniziò a sussurrare in una lingua sconosciuta e ipnotica, toni dolci si alternavano a suoni aspri e duri. Ne rimasero affascinati, incapaci di muoversi o di parlare. Con la coda dell’occhio Ted si accorse che Jonathan frugava freneticamente nella borsa di cuoio. Non riusciva a girare la testa, ma per qualche motivo gli parve che Jonathan fosse immune al potere che gli stava togliendo le forze.
Con uno scatto l’amico estrasse un oggetto dalla borsa e lo appoggiò sul tavolo. Era una piccola scatola di pelle che si aprì con uno scatto.
L’uomo in nero urlò; un urlo di rabbia e terrore che interruppe l’incantesimo che li teneva incatenati.
Dalla scatola uscì un vortice di fumo nero che prese le sembianze di un disco quasi solido del diametro di una ruota di bicicletta. Si formarono delle increspature sulla superficie nera, apparvero degli sciami luminosi che assunsero l’aspetto di costellazioni sconosciute.
L’uomo cercò di chiudere la scatola, ma Jonathan lo colpì con la sedia allontanandolo dal tavolo. L’uomo sembrò crescere di statura e allargarsi, braccia e gambe diventarono grosse come tronchi, i capelli si attorcigliavano in una danza frenetica.
Una voce emerse dallo spazio profondo del disco. Una voce incomprensibile, vibrazioni al limite delle frequenze udibili. L’uomo urlò nuovamente. Brandelli di pelle si staccarono dal suo viso rivelando scaglie viscide al di sotto. L’essere si fece avanti minaccioso, ma la voce che usciva dal brandello di spazio racchiuso nel disco di fumo si impadronì di lui. L’essere iniziò a sbriciolarsi, i frammenti scomparivano nel disco che lo stava aspirando. Dopo pochi istanti con un rumore sordo il disco implose catturando per un momento tutta la luce della stanza.
Quando ricominciarono a vedere, la scatola era a terra, chiusa. La finestra in frantumi lasciava scorgere, lontano, il moderno palazzo con l’ufficio di Ted e Jodie. I mobili, le tappezzerie e gli oggetti della stanza erano spariti. L’appartamento in cui si trovavano era diroccato e in rovina come il resto del palazzo.
«Cos’è successo?» chiese Jodie.
«La scatola,» spiegò Jonathan, «era una porta. Un’apertura verso l’universo dei suoi padroni. Quando si è aperta si sono accorti della sua presenza qui. Evidentemente la tregua è ancora valida e non volevano che venisse violata. Lo hanno richiamato indietro.»
«Come facevi a sapere che sarebbe successo?» chiese Jodie.
«Lo speravo, non lo sapevo.»
«Ma quella scatola, hai detto che non hai mai avuto una prova tangibile dell’esistenza di qualcosa che andasse oltre il nostro universo fisico. Non dirmi che non l’avevi mai aperta.» disse Ted uscendo dall’appartamento vuoto.
«Certo che l’avevo aperta, era una scatola vuota.»
Lo fissarono sconvolti.
«Per attivarla era necessario un tipo di energia che nessuno di noi è in grado di produrre. Ma l’incantesimo che quell’essere stava lanciando era esattamente quello che serviva.»
«A proposito, perché tu non sei rimasto paralizzato come noi?» chiese Jodie.
Uscirono in strada. Jonathan si mise una mano in tasca e mostrò loro due tappi per le orecchie.
Libero Seleni