Spazzini
“George.” sentì chiamare a gran voce. “Vieni fuori un momento.”
“Maledizione.” George era impegnato a cercar di capire come fosse possibile che la società avesse sempre i conti in rosso. Lavoro ce n’era, la decontaminazione era un settore che tirava. Certo c’era un sacco di concorrenza, alcuni onesti, molti purtroppo gente senza scrupoli che si limitava ad una passata superficiale, il minimo indispensabile perché i valori rientrassero nei limiti di legge e poi via, passavano a un altro lavoro. Quella gente uccideva il mercato. E i clienti spesso non capivano la differenza. Salvo poi ritrovarsi con tassi di mutazione stranamente elevati dopo qualche anno, ma ormai la frittata era fatta.
“Che c’è?” rispose al suo socio che lo chiamava dall’esterno.
“Forza, vieni a vedere.”
“Aspetta un momento. Piuttosto hai controllato l’attrezzatura? L’ultima volta siamo partiti con i filtri intasati perché ti eri scordato di pulirli. Non voglio che succeda di nuovo.”
“Non succederà più, fidati. Da oggi entriamo in un nuovo settore di mercato.”
George si sentì rizzare i capelli sulla testa. Alvin, il suo socio, aveva una spiccata abilità nel cacciarli in qualche guaio. La sua passione per la tecnologia e la sua totale incapacità di gestire qualsiasi cosa lo rendeva assai pericoloso ogni qualvolta decideva di lanciarsi in qualche impresa.
Aprì la porta del piccolo ufficio e si ritrovò nel capannone che utilizzavano come magazzino per le attrezzature. “Alvin?” Non vedeva il socio da nessuna parte.
“Qui fuori.” rispose Alvin, “Nel cortile.”
George, sempre più preoccupato, si diresse alla porta del magazzino. Vedeva la motrice di un grosso camion parcheggiata proprio lì davanti. Probabilmente un camionista si era perso, nonostante GPS, mappe e piloti automatici. Ogni tanto capitava. Gli apparecchi andavano in tilt e allora erano guai. Quasi nessuno sapeva leggere una buona vecchia mappa stradale.
Alvin lo aspettava saltellando eccitato. Con un gesto teatrale indicò il camion e il suo carico. George spalancò la bocca.
“Beh? Non dici niente?” lo incalzò Alvin.
George cercò di parlare, ma non riusciva ad articolare parola. Finalmente si riprese abbastanza da riuscire a dire “Cos’è quello?”
Con l’indice indicava un enorme razzo, o almeno quello che sembrava parte di un razzo.
“Cos’è? Un affare, il migliore che abbiamo mai fatto.” Alvin era gongolante.
“Ok.” George cercò di restare calmo. “È un affare, ma potresti spiegarmi cosa diavolo è?”
Alvin lo fissò come si guarda un idiota a cui si deve spiegare la meccanica quantistica. “Non lo vedi? È un razzo. Un Falcon 10 per la precisione. Il primo vettore a due stadi riutilizzabili.”
“È un ammasso di ferraglia.” replicò George.
“Niente affatto. Non farti ingannare dalle apparenze. È tutto perfettamente funzionante. L’hanno dismesso da qualche anno perché sono passati ai modelli successivi, ma non ha niente di rotto.”
“Va bene. Ammettiamo che sia come dici tu. Mi vuoi spiegare cosa ce ne facciamo? Il nostro lavoro è la decontaminazione. Te lo sei scordato? C’è un terreno saturo di inquinanti chimici? Chiamano noi. C’è contaminazione radioattiva? Chiamano noi.”
Alvin cercò di intervenire, ma George non gli diede spazio.
“Quando ci chiamano, noi andiamo, analizziamo la situazione, mettiamo in campo tutte le nostre capacità e la migliore tecnologia per ripulire e decontaminare. Ripulire e decontaminare. Smaltimento rifiuti. Ecco un’altra cosa che sappiamo fare bene. A cosa dovrebbe servirci,” la voce di George era salita di tono e ora stava urlando, “un dannatissimo razzo?”
Alvin lo fissava intimorito.
“E perché diavolo ti stai tappando le orecchie?”
“Stai urlando.” replicò Alvin sulla difensiva. “Se mi ascolti solo un momento ti spiego. Non sei tu che dici sempre che c’è troppa concorrenza nel nostro campo? E che un sacco di imbroglioni vende servizi scadenti rovinando il nostro mercato?”
“Si, ma questo cosa c’entra?”
“Ecco, vedi? Grazie a questo entreremo in un mercato vergine, saremo gli unici e verremo strapagati.”
Alvin afferrò per un braccio George che, incapace di reagire, lo seguì come un burattino senza volontà. “Vieni dentro che ti spiego tutto con calma.”
Entrarono nell’ufficio e George crollò su una delle sedie davanti alla scrivania ingombra di computer, monitor, pezzi di elettronica e vecchi libri cartacei.
Alvin schiacciò un paio di tasti, preparò un tè al distributore automatico e lo porse al socio.
George afferrò con gratitudine il bicchiere caldo e buttò giù qualche sorso ustionandosi la lingua. “Posso chiederti con quali soldi hai” esitò, poi si corresse, “abbiamo acquistato quel coso?”
Alvin fece un gesto con la mano rovesciando sulla scrivania parte del caffè che aveva nel bicchiere. Asciugò alla bell’e meglio con una manica della camicia, poi si sedette di fronte a George. “Ho messo un’ipoteca, sulla casa.”
“Tu non hai una casa, sei in affitto.” rispose George con voce spettrale.
“Già infatti. La tua casa intendevo dire. Ma non preoccuparti. Lasciami spiegare. Dovrai ammettere che sono un genio.”
George emise un gemito che Alvin interpretò come un incoraggiamento a proseguire. “Ti stavo dicendo di un nuovo mercato no? Eccolo. Rifiuti spaziali.” disse trionfante.
George continuava a fissarlo con espressione vuota.
“Non capisci? Hai idea di quanto sia affollato lo spazio la fuori? C’è tanta di quella porcheria che fra un po’ non riusciranno più a muoversi. Quindi vedi? Ma… che ti succede?” aggiunse allarmato.
George stava perdendo colore, gli occhi erano sul punto di spegnersi. Alvin prese una fiaschetta di metallo da un armadietto e versò una dose abbondante di liquido nel tè dell’amico. “Bevi su.” disse spingendogli il bicchiere alle labbra.
George inghiottì qualche sorso, divenne rosso e balzò in piedi sputando e tossendo. “Che diavolo mi hai dato?”
“Vodka. Un regalo di quel nostro cliente russo. Quello con le coltivazioni radioattive.”
George prese la fiaschetta e la svuotò nel lavandino. Un contatore geiger si mise a ticchettare da qualche parte nell’ufficio.
“A me piaceva.” mormorò Alvin.
“E non ti sei mai chiesto come mai la fiaschetta avesse l’esterno in piombo?”
“Uff, ti preoccupi sempre di qualsiasi cazzata.”
George alzò gli occhi al cielo e si risedette. “Cosa stavi dicendo dello spazio?” gemette.
“Ah si. Lo spazio è pieno di rifiuti. Rottami, vecchi satelliti in disuso, frammenti di materiale. Ho visto un documentario l’altro giorno, non hai idea di quanta roba ci sia lassù. E se non la recupera nessuno prima o poi succederà un bel casino. Lo diceva la tizia della BBC.”
“Perché non fai qualcosa di più utile invece di guardare i documentari? Lo sai che troppe informazioni danneggiano il cervello.”
“Non abbiamo lavoro, niente da fare e poi a me i documentari piacciono.” rispose Alvin piccato.
“E noi cosa dovremmo fare con quel coso la fuori?”
“Quello è un Falcon 10. Te l’ho già detto. È il primo vettore che sia mai stato costruito in grado di ritornare a terra per essere riutilizzato. In effetti il modello precedente,”
“Scommetto che si chiamava Falcon 9.” lo interruppe George.
“Proprio così. Comunque il primo stadio tornava a terra da solo, ma il secondo si perdeva. Questo invece recupera entrambi gli stadi.”
“E…?”
“E così noi andiamo nello spazio. Recuperiamo l’immondizia e la riportiamo a Terra. Sgomberiamo lo spazio e allo stesso tempo recuperiamo le cose, che poi rivendiamo.”
“Vecchi satelliti in disuso?” George scosse la testa.
“Su, forza. Ti faccio vedere come funziona. Mi hanno dato questo dvd.”
“Dvd?”
“Si, da qualche parte dovrei avere un lettore.” Alvin si mise a frugare fra le cianfrusaglie sugli scaffali. Finalmente ne emerse con un apparecchio impolverato. “Dunque,” borbottò “ovviamente l’uscita video è di un tipo che non si usa da un po’ di tempo, ma dovrei avere degli adattatori.” Armeggio ancora qualche momento poi mostrò trionfante a George una serie di 5 adattatori collegati in cascata all’apparecchio, l’ultimo dei quali sembrava proprio compatibile con l’ingresso sul loro monitor.
George osservava affascinato il disco che riverberava i colori dello spettro. Alvin collegò il tutto e accese. Dopo qualche istante apparve un video che illustrava con toni enfatici il funzionamento del Falcon 10. Alvin fece andare avanti il video veloce, fermandosi ad ascoltare ogni qualche minuto. Il video terminò senza aver dato alcuna informazione interessante.
Alvin, con aria delusa, tirò fuori il dvd. “Non preoccuparti, troverò sicuramente i progetti su Internet. Non ci vuole niente a far funzionare questo tipo di cose. Basta un po’ di manualità. Piuttosto dobbiamo riadattare la capsula, aggiungere delle braccia meccaniche e preparare degli agganci nel vano di carico.”
George annuì rassegnato. Sperava tanto che il razzo esplodesse durante il primo volo con Alvin a bordo.
Seguirono delle giornate frenetiche in cui Alvin passava dall’immersione in vecchi manuali di software a momenti in cui si occupava di carpenteria pesante, saldando parti, smontando e rimontando motori, costruendo strutture dalle forme incomprensibili. George collaborava passivamente eseguendo tutto quanto gli veniva indicato dall’amico.
Finalmente Alvin ritenne che tutto fosse pronto.
“Sei pronto a partire?” chiese George. Fianco a fianco, a braccia incrociate, ammiravano il razzo, dritto sulla rampa di lancio.
“Siamo pronti. Domani mattina sarà perfetto. Partenza alle sette e quarantacinque esatte. Arriveremo in un punto dell’orbita particolarmente affollata di rottami. Faremo un ottimo raccolto vedrai.”
“Veramente pensavo che forse dovrei rimanere qui, al controllo missione. Non è meglio se uno di noi due resta a terra?”
“Scherzi? Sarà fantastico vedrai. Beh andiamo a dormire, domani sveglia presto. Alle 5 ci vediamo qui per prepararci, ultimi controlli e si parte.” Alvin era letteralmente raggiante.
George passò una notte agitata, non gli piaceva l’idea di morire nello spazio, ma si consolò pensando che in fondo poteva essere la soluzione di tutti i suoi problemi. Giunse al laboratorio in anticipo e si accinse a effettuare i controlli che Alvin gli aveva assegnato. Pestava sulla tastiera, leggeva dati saltando da un monitor all’altro, controllava valori e parametri. Era lui il vero scienziato. Due lauree, in chimica e fisica. Master e dottorati di ricerca. Ma per mangiare si era ridotto a fare lo spazzino. Assieme a quel mentecatto. Non aveva nemmeno un diploma, mai vista un’università in vita sua. E gli dava ordini. Solo perché era uno stramaledetto genio. Questo bisognava ammetterlo, il suo cervello era come una spugna, assorbiva tutta e poi elaborava continuamente. Non c’era argomento che non padroneggiasse, scienze, arte, letteratura. Sapeva tutto. E adesso aveva costruito un razzo che li avrebbe ammazzati entrambi.
Alvin entrò fischiettando nel laboratorio, l’aspetto rilassato di uno che ha dormito senza alcuna preoccupazione. “Già qui? Meno male. Sono contento di vederti così entusiasta, ieri mi eri sembrato un po’ contrariato all’idea di fare il primo lancio.” Si fregò le mani “Bene, bene.”
George rimase senza parole come spesso gli accadeva in presenza del suo socio. Scosse la testa e si rimise a spuntare la check list per il decollo.
“Perfetto.” disse Alvin dopo un po’, tutto soddisfatto. “Possiamo salire a bordo.”
“Ehi non abbiamo le tute.” protestò George.
“Certo che le abbiamo.” Alvin trascinò il socio fuori dall’ufficio, aprì il portellone del suo furgone, consegnò all’amico una tuta spaziale e ne prese una per se.
George la osservò dubbioso. “Sicuro che sia così semplice? Ci si infila la tuta, si entra nel razzo e via?”
“Ma certo. Al giorno d’oggi la gente va di continuo nello spazio. Voli suborbitali, laboratori orbitali, colonie lunari, c’è di tutto.” digrignò i denti per lo sforzo di infilarsi la tuta. “È un po’ stretta la mia. Ma tanto ho in programma di dimagrire un po’. E poi tra poco potremo permettercene di nuove.”
Si trascinarono pesantemente fino al montacarichi che li sollevò fino alla capsula. Entrarono, chiusero il portello e si sedettero ai comandi.
Alvin schiacciò pulsanti, mosse leve, digitò comandi finché non annui soddisfatto. “Fatto. Ora rilassati. Stiamo per partire.”
L’accelerazione ricacciò in gola la risposta di George. Strinse i denti. Rimpianse di non essere religioso, avrebbe potuto almeno pregare. Si consolò imprecando in tutti i modi che conosceva.
Dopo ore in cui arrivò a consumare tutte le maledizioni che conosceva ci fu un colpo. “Ecco.” mormorò “È la fine.” Avrebbe voluto avere il tempo per strangolare Alvin, ma la morte imminente gli tolse qualsiasi volontà.
“Il primo stadio si è sganciato.” disse Alvin allegramente. “Tutto esattamente come previsto.”
Passarono altre ore e finalmente si spense anche il propulsore del secondo stadio.
“Dieci minuti e quarantatré secondi di spinta.” Alvin alzò il pollice sorridendo nella sua direzione.
“Dieci minuti?” balbettò George.
“Che ti avevo detto? Ci si impiega di più ad andare in centro città che in orbita. È stato facile no?”
George guardò dagli oblò. Erano davvero nello spazio. Si vedevano un sacco di stelle e il cielo era nero. Si accorse con sgomento di non sentire alcun peso.
“Siamo in orbita.” sussurrò trasognato.
“Forza, diamoci da fare. Siamo in posizione perfetta per recuperare un vecchio satellite disattivato. Eccolo li, lo vedi?”
Alvin armeggiò con i comandi, un istante di lieve accelerazione e quello che era un puntino luminoso iniziò a ingrandirsi. Alvin afferrò un joystick osservando con attenzione un piccolo monitor.
“Che stai facendo?” chiese George preoccupato.
“Sst. Sto pescando.”
Alvin premette un pulsante, si udì uno schiocco e un lungo cavo si srotolò in direzione dell’oggetto che si stava avvicinando.
“Arpione magnetico.” disse Alvin fiero di se.
Agganciarono il satellite e con le braccia meccaniche lo ancorarono nel vano di carico. Si spostarono lungo l’orbita e ripeterono l’operazione altre due volte. Alvin mostrò a George un’altra sua realizzazione, una rete per catturare i frammenti piccoli.
Il rientro avvenne senza problemi, i paracadute si aprirono al momento giusto e arrivarono a terra sani e salvi.
George si precipitò fuori, incredulo, crollò in ginocchio per l’emozione. Erano atterrati in un appezzamento vuoto accanto al loro capannone. Alvin scese tranquillamente, poco più in là svettavano i due stadi del vettore, rientrati alla base e atterrati con una precisione millimetrica.
“Non so come diavolo hai fatto.” disse George. “Giuro, non so come tu ce l’abbia fatta e non importa se questa follia sarà un fallimento, ma hai fatto una cosa pazzesca.”
Nei giorni seguenti cercarono di rivendere i pezzi recuperati, purtroppo si trattava di tecnologia troppo vecchia, inservibile. Finirono per rivendere tutto a peso, con un guadagno talmente basso da non coprire nemmeno i costi del carburante.
Alcune televisioni dedicarono loro qualche servizio, vennero a intervistarli, nelle speranze di George avrebbe dovuto funzionare almeno come pubblicità. Si ricredette quando vide i servizi andare in onda, venivano ampiamente derisi per la loro incapacità imprenditoriale, mettendo in risalto i costi esorbitanti sostenuti per recuperare un po’ di ferro vecchio.
Questo lo mandò in depressione e ciò che lo rendeva ancora più depresso era l’atteggiamento tranquillo di Alvin, come se lui sapesse qualcosa in più.
“Alvin.” sospirò George.
“Hmm? Che c’è?” Alvin scorreva cinque o sei flussi di news che apparivano contemporaneamente sui suoi monitor.
“Si prenderanno la mia casa.”
“Tranquillo, non si prenderanno nulla. Vedrai. Qualcuno chiamerà, presto.”
“Si, quelli dei prestiti.”
“Calmati su. Ho già rimesso in sesto il vettore. Possiamo partire per la prossima missione. Ci manca solo un cliente.”
“Appunto.”
“Ti ho detto che chiameranno presto. Ti ho spiegato quant’è affollato la fuori. Avranno bisogno di noi.”
“Si, quando si sentiranno tristi penseranno a noi e si faranno delle gran risate. Chissà se possiamo proporci come pagliacci.”
“Lasciali ridere. Quando inizieranno a piangere correranno a chiamarci.”
“Che vuoi dire? Non fare il profondo con me.”
Ma Alvin non rispose, occupato nella lettura delle news.
Nemmeno lo squillo del telefono riscosse George dalla sua depressione.
“Alvin. Rispondi tu. Tanto sarà qualcuno che vuole prenderci per il culo.”
Il telefono continuava a squillare. George sbucò dalla poltrona dove era sprofondato come una tartaruga che mette fuori la testa dal guscio. “Alvin dannazione.” Ma Alvin non era in vista. George sollevò il ricevitore e cercò di assumere un tono professionale.
“Finalmente.” sbraitò una voce al telefono. “Parlo con gli spazzini orbitali?”
“Sono George. In cosa posso esserle utile?”
“Maledizione, non li guardate i telegiornali voi? Sono J. Manning, presidente della MANNING MOON DEVELOPMENT.” Si sentivano le maiuscole perfino al telefono. “Ho bisogno che mi ripuliate quella dannata rotta. Per colpa di uno stramaledetto relitto uno dei miei vettori diretto alla Luna con a bordo quaranta persone e un sacco di tonnellate di materiale ha dovuto fare rientro di emergenza sulla terra. E ora lo dobbiamo rimettere in sesto. Ogni giorno che passa io ci rimetto milioni di dollari.”
“Capisco.” borbottò George, “Quindi lei vuole…”
“Voglio che andiate su a ripulire alla perfezione la rotte che devono seguire le mie navi. Non mi importa quanto costa, non voglio nemmeno un granello di polvere. Prendete contatto con i miei tecnici, vi daranno tutti i dettagli.”
“Si signore. Grazie signore.”
George corse fuori. “Alvin.” gridò “Alvin.”
L’amico lo fissò preoccupato. “Che ti succede?” George sembrava fuori di senno. Alvin per la prima volta iniziò a preoccuparsi per lo stato mentale del suo socio.
George piangeva. “Abbiamo un cliente. Abbiamo un cliente. Sei un genio. Sei uno stramaledetto genio.”
Libero Seleni