Il frimbolista uniforme
Non capita spesso di poter assistere a uno spettacolo come quello in scena in questi giorni al Teatro Impressionista di largo Minkowski. Il frimbolista uniforme, è un testo originale di Alvaro Pezskinov, rappresentato per la prima volta a teatro dalla Compagnia dell’Anima e che vede alla regia il grande, e giustamente acclamato, Rodolfo Wontinghtnon.
Chi conosce l’autore non si stupirà di sentirci definire questa sua nuova opera come totalmente fuori dagli schemi. Ricordiamo, fra i lavori più dirompenti di Pezskinov, Bianco, un blocco di fogli completamente bianco che lascia totale libertà agli attori di improvvisare ciò che vogliono e Recitatu, uno spettacolo in cui il pubblico recita e gli attori si limitano a guardare.
Il suo nuovo lavoro si distacca completamente dai precedenti. A differenza di essi infatti, è sorretto da una trama narrativa estremamente solida che racconta le vicende di un gruppo di frimbolisti nel momento del Terzo Avvento. La nuova venuta di Dio viene raccontata dai diversi punti di vista dei sette personaggi principali. Si può dire quindi che si tratta di un racconto corale anche se viene posta maggiore attenzione e maggior enfasi alla narrazione di Olgo Ul-Uurun, interpretato da Alvin Lumpjack, il frimbolista uniforme che dà il titolo all’opera.
Ogni personaggio incontra il proprio Dio in ognuno dei sette movimenti che seguono il prologo. Nell’ottavo i personaggi e i loro Dio si ritrovano tutti assieme e danno vita alla parte più intensa dell’opera di cui non sveleremo né il contenuto né il finale.
Oltre al già citato Lumpjack ci hanno colpito molto le interpretazioni di Serena Tzul-an-oort e William Aberdeen III, due giovani promesse della recitazione che stanno dimostrando capacità di altissimo livello.
Numerosissimi i comprimari che si affollano sul palco, riempiendolo ai limiti del possibile, rendendo in tal modo estremamente efficace la rappresentazione dell’isolamento dei personaggi principali. Notevole l’apporto di una compagnia di orl giunta appositamente da Wontarth, che con la loro bizzarra capacità di camminare a mezz’aria stupisce e mantiene alto l’interesse, anche del pubblico più smaliziato.
Le scenografie, fra le più avveniristiche della storia del teatro, hanno richiesto oltre due anni di lavoro preparatorio, in gran parte spesi per ritrovare i nanobot che si erano persi, in seguito al ribaltamento del camion che li trasportava.
L’intero spettacolo è un inno alla volontà senziente di ritrovare una dimensione archetipica, tematica mutuata dall’autore dai lavori di filosofi di fama, come Hersh, Zundapp, Von Hurschsnutzel e Lavillon. La plasticità molteplice dell’uno che è motore di un rinnovamento vivificante si ritrova qui nelle dinamiche espressive intrecciate di mente e corpo, dove l’una non può sopraffare l’altro senza esserne a sua volta sopraffatta.
Il finale, che non vi vogliamo svelare, lascia molte domande aperte a cui il pubblico stesso è chiamato a rispondere nella tranquillità della propria coscienza.
Unico neo, ma da alcuni critici potrebbe essere visto come un fattore positivo, è la durata dello spettacolo. Sessantasette ore ci sono sembrate francamente un po’ eccessive, soprattutto se, come nel nostro caso, avete finito i popcorn.
Libero Seleni