Unwhalt
Alcuni anni or sono, mentre frugavo fra i libri usati di una bancarella non lontana da Plaza España a Comodoro Rivadavia, trovai un’edizione portoghese del 1937 delle Storie di Erodoto curata da Xavier Martines. Colpito principalmente dall’originalità dei caratteri tipografici l’acquistai senza tuttavia prestarvi molta attenzione. Alcuni mesi più tardi, mentre vagavo con lo sguardo alla ricerca di una motivazione per non lavorare scorsi il libro che avevo abbandonato su di uno scaffale e decisi che era il momento giusto per dedicarvi un po’ di tempo. Sebbene il mio portoghese fosse alquanto traballante speravo tuttavia di trarre un qualche piacere dalla lettura, quando con grande sorpresa mi accorsi che alcune pagine non appartenevano al grande storico greco. Stampate con un carattere assai simile a quello del libro e abilmente rilegate assieme alle pagine originali, ad un esame più attento rivelavano però la loro natura estranea. Per qualche motivo qualcuno aveva nascosto alcune pagine in un libro altrimenti piuttosto comune. Inizia a leggere con interesse rinnovato, nella speranza che un lavoro così accurato per nascondere quel testo fosse giustificato da un contenuto di estrema importanza. Ecco cosa lessi.
Non lontano, oltre le colline, invisibile e indefinito si trovava il confine. Spesso da bambini ci inerpicavamo sulle alture che lo sovrastavano nella speranza di scorgere qualcosa delle terribili meraviglie che si narrava accadessero nella terra di Unwhalt, ma tutto ciò che riuscivamo a scorgere erano le aguzze montagne velate di azzurro che chiudevano l’orizzonte. La prateria al di là del confine ci sembrava identica a quella che circondava le nostre case, eppure nessuno di noi osava attraversarlo e verificare di persona. Troppe voci mormorate, troppe leggende ascoltate attorno ai fuochi raccontavano gli enormi pericoli che ad ogni passo attendevano chi osasse recarsi in quel mitico paese.
Ci stendevamo sull’erba con lo sguardo fisso all’orizzonte, sognando. Perché non tutte le storie che ascoltavamo rapiti erano storie terribili. Alcune narravano di favolosi tesori, di palazzi di lucido metallo con guglie slanciate alte come montagne e mura di cristallo, di popoli discendenti dagli dei, uomini e donne di una bellezza così perfetta da togliere letteralmente il fiato. Si narrava infatti che chi li aveva incontrati fosse morto soffocato al solo vederli.
Non erano rari i viaggiatori che osavano avventurarsi, chi per desiderio d’avventura, chi per brama di ricchezza, chi per disperazione, in questa mitica terra. Arrivavano da lontano, si fermavano, a volte, nella nostra locanda per ristorarsi e riposarsi al sicuro un’ultima notte, prima di inoltrarsi nell’ignoto. Alcuni chiacchieravano con noi, cercavano di raccogliere più informazioni possibile e restavano delusi di fronte alla nostra ignoranza. Erano uomini e in qualche raro caso donne, di ogni genere e provenienza. Io stesso posso affermare di aver visto cavalieri con lucide armature e spade affilate, mendicanti vestiti di stracci, rudi barbari ricoperti di pelli che brandivano scuri gigantesche, nomadi del deserto, nobili riccamente abbigliati con stuoli di servitori al seguito, soldati, banditi e persone normali, non dissimili da chi viveva nel villaggio. Tutti hanno varcato il confine, ma nessuno di loro è tornato. Se siano morti, dispersi, incapaci di tornare o se piuttosto abbiano trovato gloria e ricchezze, nessuno lo può affermare con certezza.
Ricordo bene quando avvenne il fatto che avrebbe cambiato il corso della mia vita. Di molte vite in realtà, per lo meno quelle di tutti coloro che vivevano nel mio villaggio.
Ripensandoci ora sembra strano che una semplice coincidenza di avvenimenti accaduti quando avevo circa undici anni abbia determinato il corso della vita di molte persone.
In quei giorni il principe Simroff, figlio di re Carak III signore di tutti i territori al di qua del confine, si era intestardito di conquistare, o quantomeno esplorare, con una spedizione ben organizzata le terre di Unwhalt. Per questo motivo, ordinatamente acquartierata, su un terreno incolto accanto al paese stazionava da parecchi giorni una legione di soldati sotto il comando diretto del principe. Si trattava, per noi bambini del villaggio e non solo per i bambini, di uno spettacolo meraviglioso e inquietante. Non ci saremmo nemmeno immaginati che al mondo potessero esistere così tante persone e scoprire che si trattava solo di una piccola parte dell’esercito e che l’esercito era solo una parte degli abitanti del regno e che perfino il regno era solo uno dei tanti esistenti sulla terra ci sconvolgeva. Naturalmente queste cose le sapevamo in teoria, ma vivendo così isolati dal resto del mondo non ne avevamo mai avuto una prova pratica e tangibile.
Per questo motivo le nostre attenzioni erano distratte dall’osservazione del confine e preferivamo invece scrutare le file di tende, i soldati impegnati in esercitazioni e manovre; e curiosi, dalla nostra postazione sulle colline, speravamo di intravvedere il principe in persona.
In realtà lo avevamo visto più volte senza mai rendercene conto, egli infatti, a dispetto del lusso del quartier generale e della sua tenda personale, era un uomo d’azione e sul campo indossava una normale uniforme dell’esercito; unico tratto distintivo i gradi che lo contraddistinguevano come massima autorità.
Distratti da queste attività mancò poco che non ci rendessimo nemmeno conto del secondo, ancor più straordinario evento che accadde nello stesso periodo. Attendevamo trepidanti che l’esercito si muovesse, immaginavamo una grande linea di soldati a cavallo varcare il confine, imponente e fiera, forse invincibile, coraggiosamente proiettata verso l’ignoto. In realtà i piani del principe erano molto più sensati, egli intendeva inviare piccoli gruppi in esplorazione, stabilire degli avamposti e solo dopo averli resi sicuri procedere ulteriormente verso l’interno.
Ma ignorando tutto ciò restavamo con lo sguardo fisso sul campo certi che il momento in cui avremmo visto l’imponente esercito in marcia si stava avvicinando. Ogni tanto uno di noi si alzava per sgranchirsi o per andare a pisciare per poi tornare al proprio posto di osservazione. D’un tratto Etlyan, un bambino di un paio d’anni più piccolo di me scoppiò a ridere come un pazzo. Tutti ci voltammo verso di lui e lo vedemmo indicare poco più in là un altro di noi che con espressione ebete si stava pisciando sui piedi. Scoppiammo tutti in fragorose risate, ma la sua espressione immobile ci fece ben presto rabbrividire. Seguimmo il suo sguardo perso e tutti sentimmo i nostri cuori perdere un colpo. Qualcuno stava arrivando verso di noi.
Un uomo a piedi attraversava il confine. Barcollava, sembrava ferito o stremato, ma era impossibile sbagliarsi; attraversava il confine nella nostra direzione. Mai era successo se dovevamo credere ai racconti che risalivano ai tempi più remoti. Da quando si aveva memoria nessuno aveva mai attraversato il confine uscendo da Unwhalt. Dopo un momento di smarrimento ci precipitammo giù dalla collina e corremmo incontro a quell’uomo.
Quando lo raggiungemmo ci avvicinammo a lui con timore, ci tenevamo un po’ al largo e allo stesso tempo lo osservavamo pieni di meraviglia. Non osavamo toccarlo o rivolgergli la parola e avremmo continuato a saltellargli attorno, come dei passeri che attorniano un merlo nella speranza di rubargli qualche briciola, se lui non fosse incespicato cadendoci letteralmente addosso.
Lo aiutammo a rialzarsi e dopo una breve discussione fra noi decidemmo di portarlo all’accampamento dell’esercito. Alcuni di noi sostenevano che sarebbe stato meglio portarlo al villaggio, dai vecchi che avrebbero saputo come comportarsi, ma la maggioranza pensava che un fatto così straordinario potesse essere un lasciapassare per arrivare direttamente al cospetto del principe.
L’uomo si girò verso il confine e disse: “Stanno arrivando.”
Si muoveva con fatica, per cui sorreggendolo a turno ci avvicinammo alle sentinelle del campo. Com’era prevedibile dapprima non credettero alle nostre parole, ma l’aspetto dell’uomo era tale da lasciare pochi dubbi. Adagiarono l’uomo su una barella e in pochi attimi fummo attorniati da soldati, e ufficiali che improvvisamente si fecero da parte per far passare colui che da tempo speravamo di vedere. Il principe in persona si chinò sull’uomo, gli terse delicatamente la fronte con un panno umido, gli inumidì le labbra e gli parlò con dolcezza.
All’improvviso l’uomo sulla barella afferrò il bavero della giacca del principe, lo trasse vicino a se e ripeté: “Stanno arrivando.” poi svenne. Non disse altro; non fu possibile risvegliarlo e dopo alcune ore morì.
Il principe si rivolse a noi che intimoriti cercavamo di nasconderci uno dietro l’altro. Alcuni ufficiali ci spinsero avanti sgarbatamente e ci urlarono di raccontare al principe tutto ciò che sapevamo. Il principe intervenne immediatamente. “Silenzio! Non c’è motivo di trattarli duramente, non hanno fatto nulla di male, anzi.”
Poi si rivolse a noi con la stessa gentilezza che aveva usato con l’uomo ferito. Non era un tono falso o accondiscendente. Era una persona consapevole della propria autorità e forza, e non sentiva alcun bisogno di urlare per dimostrare qualcosa.
“Raccontatemi tutto ciò che è accaduto. Ha detto qualcosa mentre lo accompagnavate fin qui?”
“Niente signore.” rispose uno di noi subito redarguito da un ufficiale. “Devi dire: ‘Altezza’ quando ti rivolgi al principe.”
Il principe spazientito si voltò verso uno dei suoi attendenti indicando l’ufficiale che aveva parlato. “Via di qui. Chi è troppo idiota per non capire quando è il momento di badare alla forma e quando è il momento di badare ai fatti non lo voglio fra i miei uomini. Rispeditelo in città.”
Si voltò nuovamente verso di noi e ci incoraggiò a proseguire. Io mi sentii spronato a parlare per cui presi la parola. “Ha detto solo una cosa, mentre camminava si è voltato verso il confine e ha detto: ‘stanno arrivando’. Le stesse parole che ha detto poco fa.”
“E non ha detto chi o cosa starebbe arrivando? Si vedeva qualcosa oltre il confine?”
“No, altezza.” rispondemmo tutti quanti.
Il principe si mordicchiò il labbro poi si girò verso i suoi ufficiali. “Cosa ne pensate?”
“Dovremmo accelerare i tempi, inviare degli esploratori, capire se c’è qualcosa o qualcuno che sta marciando verso di noi.” rispose un generale.
“E voi ragazzi cosa ne pensate?” chiese il principe rivolgendosi nuovamente a noi.
Non sapevamo assolutamente cosa dire. Nessuno aveva mai chiesto la nostra opinione su nulla. Certamente non un adulto e sicuramente mai ci saremmo aspettati che un nostro parere potesse interessare ad un principe.
“Voi vivete qui da sempre,” riprese il principe, “cosa pensate di questa situazione? Avevate mai visto quell’uomo? Era passato di qui prima di attraversare il confine? O è un’abitante delle terre al di là?”
Noi scuotemmo la testa, poi qualcuno prese il coraggio di parlare. “Non avevamo mai visto quell’uomo, signore. I suoi vestiti non sono come quelli che usiamo noi,” si guardò attorno “e nemmeno voi. Ma non abbiamo mai visto nessun abitante di Unwhalt, non sappiamo come si vestano, che aspetto abbiano.” Strascicò i piedi. “Forse qualche anziano ne sa di più di noi, ma da quanto si ricorda nessuno aveva mai attraversato il confine in questa direzione.”
Il principe ci ringraziò e venimmo riaccompagnati al di fuori del campo militare.
Per alcuni giorni vedemmo molti ufficiali venire in paese e alcuni anziani furono accompagnati negli accampamenti militari, ma nessuno aveva qualcosa da dire. Nessuno ricordava che un evento simile fosse mai accaduto prima e nessuno sapeva qualcosa di certo sulle terre di Unwhalt. Solo leggende e voci venivano tramandate di generazione in generazione, e ciò che i vecchi sapevano non era più di quanto sapessimo noi.
In quei giorni, a differenza del solito, non eravamo solo noi ragazzi a sorvegliare il confine invisibile, parecchie sentinelle militari erano schierate sulle colline e molti adulti e anziani del paese ci facevano compagnia nelle nostre lunghe giornate.
Alcuni esploratori vennero inviati oltre il confine, li vedevamo cavalcare verso l’orizzonte voltandosi spesso verso di noi, nel tentativo di non perdere il contatto con il mondo conosciuto. Gli ordini del principe erano tassativi, non dovevano mai allontanarsi così tanto da perdere di vista le colline su cui le sentinelle erano schierate e dovevano segnalare con bandiere colorate qualsiasi cosa potesse sembrare rilevante. Tutti gli esploratori tornarono senza aver visto nulla di particolare. Dal punto in cui erano arrivati avevano avuto solamente una vista migliore delle imponenti montagne che si ergevano più oltre.
Ma in un caso, mentre gli esploratori si inoltravano verso l’orizzonte, sulla prateria si scatenò un violento temporale. Grosse nuvole scure scendevano dalle montagne lontane e una pioggia torrenziale e improvvisa velò a lungo i nostri sguardi. Fu una tempesta intensa quanto breve che lasciò l’aria limpida e pulita, ma nonostante la visibilità perfetta non vedemmo più tre degli esploratori che non fecero più ritorno.
Non ne vennero inviati altri e comprendemmo ben presto che i piani del principe erano cambiati.
Circa quindici giorni dopo iniziarono ad arrivare carovane di artigiani e muratori e grossi traini carichi di pietre e legname. Tutti gli uomini in grado di lavorare vennero assunti per contribuire ai lavori di costruzione. Due grosse torri, massicce e solide, circondate da alte mura e da edifici fortificati vennero erette sulle due colline più alte lungo il confine. Il principe e i suoi generali avevano preso sul serio le parole dell’uomo giunto dalle terre sconosciute e temevano evidentemente l’arrivo di truppe d’invasione. Le due guarnigioni avrebbero dovuto trattenere gli invasori abbastanza a lungo da permettere al grosso dell’esercito di organizzarsi per la guerra. Noi osservavamo affascinati il procedere dei lavori. Il nostro paese, da sempre isolato e tranquillo era diventato il centro di un’attività frenetica. Tutti si domandavano cosa sarebbe cambiato per noi. Il principe se ne andò con il suo seguito, ma soldati e ufficiali rimasero e ben presto iniziarono ad arruolare gente del paese.
Ora l’attività più divertente per noi ragazzi era guardare l’addestramento delle reclute, i nostri amici, poco più grandi di noi stavano diventando dei soldati. Era un’idea che non ci era nemmeno mai passata per la testa, fino a poco prima avevamo solo una vaga idea di cosa fosse un soldato; ce n’erano stati fra quelli che avevano attraversato il confine in cerca di fortuna, ma più che altro si trattava di ex soldati, sbandati, radiati o fuggiaschi da qualche esercito in rovina.
Soprattutto non immaginavamo affatto che non sarebbe passato molto tempo prima che fossimo noi a marciare disciplinatamente sotto il sole e la pioggia. Prima che le torri fossero giunte alla loro altezza definitiva io iniziai l’addestramento. I lavori proseguivano lentamente, legname ce n’era in abbondanza sulle colline, ma tutta la pietra da costruzione doveva giungere da lontano. I pesanti blocchi grigi arrivavano su grossi carri trainati da giganteschi buoi dalle corna spuntate. E mentre mura e torri crescevano io marciavo alla loro ombra che si allungava. Diventai un soldato e iniziai i miei lungi turni di guardia sulle mura. E ripresi così a fare ciò che avevo sempre fatto da ragazzo, scrutare il confine, solo che ora indossavo una divisa e portavo delle armi. Sentivamo che il nemico era vicino e ci immaginavamo vedette e sentinelle intente a scrutarci, ma nessuno si faceva vedere.
Nuove reclute da addestrare arrivavano di continuo, all’inizio ragazzi poco più giovani di me, quegli stessi con cui avevo passato le giornate bighellonando sulle colline, ma un giorno mi accorsi con sgomento che i nuovi arrivati non li conoscevo affatto, sebbene fossero anche loro del paese. Alcuni visi mi erano familiari, mi ricordavano bambini troppo piccoli per seguirci nelle nostre avventure, bambini che rimanevano attaccati alle gonne delle loro mamme a spiarci con occhi spalancati. Com’era accaduto che fossero diventati abbastanza grandi da entrare nell’esercito? D’improvviso realizzai che erano passati anni, anni in cui avevo marciato, fatto la guardia, mi ero addestrato. Anni in cui avevo scrutato il confine senza che nessuno mai giungesse.
L’atmosfera alla guarnigione si era rilassata, senza che ce ne rendessimo conto avevamo smesso di credere che un nemico sarebbe arrivato dalle terre di Unwhalt per invaderci, ma continuavamo a fare il nostro lavoro, per quanto inutile ci sembrasse. Passarono altre estati torride e lunghi inverni nevosi, smettemmo di reclutare nuovi soldati, i contatti con il comando si allentarono, un po’ alla volta diventammo una guarnigione dimenticata, perduta nel grande mare d’erba.
Finché arrivò d’improvviso un portaordini con la notizia che una guerra su un altro fronte richiedeva tutte le risorse disponibili; le due fortezze sul confine considerate ormai inutili venivano chiuse e tutti i soldati sarebbero dovuti rientrare alla capitale per ricongiungersi con il resto dell’esercito impegnato a difendere il regno o congedarsi.
E così a venticinque anni, dopo averne trascorsi più di dieci nell’esercito passati a scrutare la frontiera scelsi di congedarmi. Non sapevo nulla di guerra, non provavo alcun affetto per un regno che non conoscevo e nessun senso patriottico per una patria di cui avevo solo sentito parlare. Ero ancora giovane, avrei potuto restare in paese a lavorare, certo nessuno aveva bisogno di un soldato, ma avrei potuto imparare un mestiere.
Era ciò che pensavo, ma dopo pochi giorni di euforia mi resi conto che il mio sguardo correva sempre al confine. Compresi ben presto che avendolo scrutato così a lungo ne ero rimasto stregato e il mio unico desiderio era di attraversarlo e scoprire cosa si nascondeva oltre le montagne.
Così, in una limpida giornata di primavera, preparai il mio equipaggiamento e partii…
Così terminava il racconto sulle pagine abilmente rilegate nel testo di Erodoto. I puntini di sospensione erano la chiara indicazione che il racconto non era finito e proseguiva altrove. Da allora scruto ogni bancarella di libri usati, ogni bottega d’antiquariato alla ricerca di altri frammenti della storia, ma fino ad ora senza fortuna.
Libero Seleni