la maledizione dell’uomo
Confusione. Paura. Zanne sguainate. Ringhi. Il suo branco. Il suo branco lo stava scacciando. Un muro di zanne luccicanti.
Il grosso lupo bianco iniziò a correre. Via. Lontano. Gli odori della foresta erano per lui qualcosa di solido, tangibile, come gli alberi, i sassi, il terreno gelato. Correre. Allontanarsi. Ora era un lupo solitario, cacciato dal branco di cui era stato il capo. Nessun luogo dove andare, nessuna tana a cui tornare. Correva. Cacciava quando la fame era troppo intensa. Seguiva le tracce di qualche piccolo roditore, la scia olfattiva di una preda. Ancora via. Nessun luogo. Correre. Si stava stancando. Impossibile, non si stancava mai. Correre era nella sua natura di lupo. Eppure era stanco.
Perché il suo branco l’aveva scacciato?
Ora ricordava, il cacciatore, quei rumori forti, come i tuoni, alcuni del suo branco a terra. Lui aveva morso il cacciatore, alla gola. Aveva salvato il suo branco. Perché lo scacciavano ora? Perché?
No, aspetta, questi non sono pensieri da lupo. Non pensare. Ascolta, annusa, non pensare. Corri. Eppure lui li aveva salvati. Non era possibile che lo cacciassero. Non pensare! Non puoi pensare, un lupo non pensa. Cacciare. Correre. Accoppiarsi. Allevare i piccoli. Queste sono cose da lupo. Non pensare! Corri! Non pensare!
Eppure le zampe diventavano sempre più pesanti. Il lupo si fermò a riposare. Impossibile, non era mai stanco!
Ripensò al suo branco che lo stava scacciando. Ora capiva. La paura, non era suo l’odore della paura, erano loro ad avere paura di lui. Perché lo temevano? Perché l’avevano scacciato? Aveva ucciso il cacciatore, li aveva salvati, ricordava il sangue dell’uomo sulla lingua. Per ripulirsi aveva bevuto l’acqua che filtrando dal terreno molle riempiva le orme lasciate dal cacciatore ormai morto. Ricordava la luna, la luna che si rifletteva nelle orme piene d’acqua. Il suo muso l’aveva frantumata in mille scaglie lucenti. Poi il branco, era tornato da loro, avevano annusato i loro compagni rimasti a terra ed erano corsi via. Assieme. Erano ancora assieme, lui il capo, come era ormai da tempo. E poi… qualcosa era successo, ma non ricordava cosa. Era cambiato. Si sforzava di ricordarlo. No! Non devi ricordare, un lupo non ricorda, non si chiede il perché. Ma c’era qualcosa, li, nella sua testa, da qualche parte. Doveva scacciarlo, resistere. Non doveva lasciar vincere quella cosa orrenda che sentiva crescere in lui. Qualcosa di disgustoso era nascosto da qualche parte dentro di lui e voleva uscire.
Non riusciva a rialzarsi, guardò le sue zampe, gli sembravano strane, il pelo, il pelo era meno folto, cadeva a ciuffi lasciando intravvedere una pelle pallida, dall’aspetto fragile, malato. I suoi artigli non c’erano più, le tozze dita delle zampe si allungavano in fragili bastoncini dalle unghie deboli e corte. Cercò di alzarsi, qualcosa lo spinse a reggersi sulle zampe posteriori. Un lupo non sta su due zampe. Allora capì. Ululò disperato alla faccia tonda della luna, ma quello che uscì dalla sua gola fu un grido tragico che più nulla aveva di lupesco.