Avrai i miei occhi: fantascienza sotto la “Madunina”

Avrai i miei occhi: fantascienza sotto la “Madunina”

Milano entra di diritto nel novero delle città dell’immaginario fantascientifico e lo fa grazie ad Avrai i miei occhi di Nicoletta Vallorani, pubblicato da Zona 42.

Probabilmente non si tratta della prima storia di fantascienza ambientata nella città lombarda, ma in questo romanzo l’ambientazione non si limita a ricoprire il ruolo di sfondo, diventa invece protagonista.

Avrai i miei occhi rientra a pieno titolo in quello che rappresenta un filone a sé stante della fantascienza e che si potrebbe definire come citypunk. Si tratta di una serie di romanzi in cui la città emerge dal ruolo di sfondo della narrazione e diventa personaggio a tutti gli effetti.

Intendiamoci, l’ambientazione è sempre stata importante in qualsiasi romanzo e la fantascienza, con la sua capacità di estremizzare le cose ci ha regalato ambientazioni indimenticabili e capaci di mettere a dura prova i personaggi. Si può pensare al deserto di Arrakis (Dune, Frank Herbert) o al pianeta ad alta gravità su cui sono costretti a sopravvivere I superstiti di Ragnarok (recentemente ripubblicato da Delos come I reietti di Ragnarok) o al Condominio di Ballard. In tutti questi casi però, l’ambiente assolve alla funzione di esercitare pressioni sui personaggi restando comunque in secondo piano. Se sostituissi i “vermi delle sabbie” con i “vermi della giungla” o i “vermi dell’oceano” Dune non cambierebbe poi molto, il pianeta Raganrok è piuttosto anonimo e al posto di un condominio potrei rinchiudere i personaggi di Ballard in un resort alle Maldive.

Ma c’è una serie di romanzi in cui l’ambientazione, oltre alla classica funzione di mettere in difficoltà i personaggi, assurge a ruolo di comprimario se non proprio di protagonista. Questo accade a città reali, come a New York in New York 2140 di Kim Stanley Robinson, a Parigi in Gli ultimi giorni della nuova Parigi di China Mieville e, appunto, a Milano in Avrai i miei occhi, o immaginarie, come Qaanaaq ne La città dell’Orca di Sam J Miller (di cui abbiamo parlato qui), o alla città doppia di Besźel e Ul Qoma in La città e la citta di China Mieville.

In tutti questi casi sarebbe impossibile spostare l’azione senza stravolgere pesantemente non solo la struttura del romanzo, ma soprattutto il suo significato.

Avrai i miei occhi quindi è prima di tutto un romanzo su Milano. Una Milano stravolta, cyperpunk, distopica, ma sempre, almeno parzialmente, riconoscibile, simile alla Parigi “surrealista” de Gli ultimi giorni della nuova Parigi, anche quella una città deformata, distorta, frammentata.

La forma si adatta al contenuto e in tal modo contribuisce a modellarlo.

Frammentazione è la parola chiave per descrivere il romanzo di Nicoletta Vallorani. Racconta infatti di una città frammentata in cui personaggi frammentati (in vari modi, fisicamente e psicologicamente) vivono vite frammentate e lo fa utilizzando una struttura narrativa frammentata così come frammentato è il linguaggio utilizzato. Si tratta di una scelta stilistica molto precisa e importante che contribuisce a ricreare l’atmosfera e le sensazioni raccontate. La forma si adatta al contenuto e in tal modo contribuisce a modellarlo.

La storia è un “giallo”, la storia di un’indagine, con atmosfere e linguaggio che rimandano all’hard boiled di Hammett o Chandler, o meglio ancora al sottogenere noir, in cui tutti i personaggi sono in qualche modo moralmente compromessi. Frasi brevi, dure e coriacee come il cuoio, spesso gelide come il nevischio bagnato che cade a tratti sporcando il mondo dei personaggi, in qualche punto poetiche e candide come la rara neve che nasconde l’orrore della città spezzata.

In quel che resta di una Milano dopo una guerra di cui non viene detto molto, spaccata in diverse zone circondate da muri in cui la separazione e la distanza fra ricchi e poveri è diventata incolmabile, si muove un detective, Nigredo accompagnato/guidato da Olivia, una tassista con un passato criminale, e aiutato da altri personaggi rinchiusi come lui nella zona dei reietti. Personaggi deformi, spezzati, mutanti, o per meglio dire mutati, spesso proprio a causa di torture e sperimentazioni folli.

I temi del romanzo sono molti; quello portante è il tema della violenza in particolare sulle donne, sui loro corpi e sulle loro menti. Una violenza estrema, abissale, continuativa, perpetrata per il semplice gusto della violenza stessa, per il piacere del possesso, del potere e del controllo su un altro essere umano. Una violenza che genera un mercato fiorente di corpi clonati, cose da usare, da stuprare e violentare in ogni modo. E qui subentra l’altro tema, più volte accennato, ma sempre lasciato in sospeso: la distinzione fra essere umano e oggetto.

“Cosa sappiamo delle cose?” si interrogano spesso i protagonisti. Le cose sono le “cavie”, cloni incapaci di provare sensazioni e sentimenti, nati per scopi scientifici e poi oggetto di un fiorente commercio per scopi illeciti. Ma sono realmente cose o sono invece, comunque esseri umani? Cosa sappiamo delle cose?

“Cosa sappiamo delle cose?”

C’è poi il tema della segregazione, la separazione invalicabile fra i ricchi e i reietti, gli inadatti, gli emarginati. C’è anche la corruzione di una politica che promulga leggi all’apparenza giuste, ma che chiude volentieri un occhio sui traffici illeciti, si accenna alla repressione violenta del dissenso, alla tortura, alla sorveglianza. Tutte queste tematiche contribuiscono a costruire l’affresco di una società cupa e violenta, una distopia terribile, tuttavia, come tutte le distopie della “buona” fantascienza, non certo una distopia impossibile.

La storia del detective Nigredo è raccontata in una bizzarra seconda persona, frammista alla prima persona di Olivia, personaggio e voce narrante. Per via di una connessione empatica e telepatica fra Nigredo e Olivia quest’ultima è in grado di raccontare non solo le azioni dell’investigatore, ma di esplorarne anche i pensieri e le sensazioni. Grazie a questo stratagemma possiamo essere nella testa di Nigredo pur restando saldamente in quella di Olivia. L’autrice è in grado così di passare agilmente da un punto di vista all’altro, anche all’interno di una stessa scena, superando elegantemente l’ormai consueta, ma rigida assegnazione dei personaggi a capitoli differenti, tecnica narrativa resa assai popolare da George R R Martin nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco e dai suoi tanti epigoni.

La vicenda è narrata al presente, le cose accadono mentre le leggiamo, non possiamo sapere come finiranno le cose, non c’è un rassicurante uso del passato che può lasciare pensare che almeno il narratore deve essere in qualche modo sopravvissuto alla fine della storia.

È sicuramente un libro da leggere, la qualità è garantita, come sempre nelle cose di Zona 42, tuttavia devo ammettere di aver personalmente trovato un difetto non banale: non sono riuscito a provare empatia e a immedesimarmi nei personaggi. Devo ammettere che l’uso della seconda persona, seppur magistrale, è una scelta che fatico ad apprezzare e lo stesso dicasi dell’utilizzo del presente. Per questi motivi immagino che la mancanza di empatia sia un problema mio, più che del testo in sé. Tuttavia, nonostante l’interesse per la vicenda che mi ha spinto avanti nella lettura e per le riflessioni sulle tematiche messe in campo dall’autrice, non ho provato particolare timore o speranza per la sorte dei personaggi.

Si tratta in ogni caso di un libro che vale la pena leggere e che rimarrà in mente a fine lettura, con gli interrogativi che suscita, i dilemmi morali e la prospettiva di un futuro possibile, ma per nulla auspicabile.



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