L’apocalisse dovrebbe essere annunciata dalle trombe del giudizio

L’apocalisse dovrebbe essere annunciata dalle trombe del giudizio universale, non da un mezzobusto del telegiornale. O almeno è quello che si potrebbe legittimamente aspettarsi; una certa solennità e gravità.

Ricordo la scena alla perfezione; nonostante tutto quello che è successo dopo e che tende a confondersi nella memoria, l’immagine di quel momento è vivida come fosse appena accaduta.

Eravamo seduti a cena, la mamma aveva preparato gli spaghetti al pomodoro e la mia sorellina Rita si era riempita di sugo; il suo musetto tondo era tutto colorato di rosso e io ridevo e le facevo le boccacce. I miei chiacchieravano fra loro lanciando ogni tanto uno sguardo all’orologio in attesa di accendere la tv per il telegiornale; Io avevo dieci anni e non mi interessava molto, avrei preferito i cartoni animati, ma qualche volta il telegiornale mostrava cose curiose.

Di colpo i miei fecero silenzio, anche Rita capì subito che qualcosa non andava, lesse la paura sui loro volti e iniziò a piangere. Mamma la prese in braccio per farla star zitta e papà troncò con un cenno la domanda che stavo per fare.

Guardai la tv e cercai di prestare attenzione: l’annunciatore parlava con un tono falsamente emozionato, mi parve annoiato più che agitato o sorpreso. Gli Stati Uniti d’America avevano sganciato una bomba atomica sulla Corea del Nord. Lo chiamavano attacco preventivo. Anche alla mia età capivo che lanciare bombe su qualcuno può prevenire una sola cosa, la pace.

Non sapevo esattamente cosa fosse un’atomica, ma avevo studiato quello che era successo in Giappone e avevo anche visto il film di Wolverine, quello in cui si nasconde in un pozzo proprio quando esplode la bomba di Nagasaki. Sapevo che una bomba atomica era male, molto male.

I miei genitori iniziarono a parlare concitati, mia madre piangeva, mio padre cercava di rassicurarla.

Il giornalista proseguì dicendo che in tutte le nazioni del mondo era stato dichiarato la stato d’emergenza. Ci sarebbero stati soldati davanti a tutti i negozi, non sarebbe stato permesso l’accaparramento di merci e dal giorno dopo si sarebbe potuto comprare solo quello che poteva servire per una settimana, non di più.

Quella sera fummo mandati a letto senza tante coccole; non riuscivo a prender sonno e sentivo mamma e papà che parlavano continuamente, fermandosi di colpo per ascoltare la tv e riprendere poi a discutere fra loro.

Ero ancora sveglio quando, a notte fonda, entrarono nella nostra camera e si fermarono accanto ai nostri letti. La mamma piangeva quando prese Rita fra le braccia e la strinse a sé, senza svegliarla. Papà si sedette sul mio letto, accanto a me e mi abbracciò stretto. Ne fui sorpreso perché non dispensava mai un abbraccio senza motivo. Feci finta di dormire, imbarazzato e spaventato dal loro comportamento.

La mattina dopo, attraversando la città per andare a scuola, mi accorsi che tutti quanti si guardavano attorno straniti. Sembrava di vivere in un videogioco: c’erano soldati che camminavano per le strade e blindati dell’esercito davanti ai supermercati.

Nonostante questo la giornata non fu tanto diversa dal solito e quando tornai a casa la faccenda dell’atomica mi sembrava già una cosa vecchia.

Passarono un paio di giorni senza che accadesse nulla: dalla Corea del Nord non arrivava nessuna notizia, gli Stati Uniti avevano offerto aiuti e personale esperto nella cura dei colpiti dalle radiazioni. Mi parve una cosa davvero stupida, come picchiare qualcuno a sangue e poi offrirsi di aiutarlo offrendogli un fazzoletto per tamponarsi il sangue.

Cina e Russia intimavano agli Stati Uniti di tenersi alla larga e allo stesso tempo offrivano loro aiuto alla Corea che non rispondeva a nessuno; la tensione era altissima e nessuno osava muoversi.

Passarono un altro paio di giorni e tutto sembrava tranquillo, la gente era tornata ai comportamenti abituali, i soldati erano spariti e nessuno si preoccupava più per il futuro.

Era trascorsa una sola settimana e si era passati dalla paura per gli scenari più terribili all’accettazione passiva di ciò che era accaduto. Sembrava proprio che il mondo fosse in grado di digerire anche l’uso delle armi atomiche.

Dopo una settimana la Corea reagì. Lanciarono cinque missili, tutto quello che avevano probabilmente, verso gli Stati Uniti. Due caddero in mare, due vennero abbattuti e uno solo colpì il bersaglio, ma bastò. San Francisco venne cancellata dalla geografia della California e sostituita da un deserto di macerie radioattive.

Non ci fu il tempo di avere paura. Gli Stati Uniti, preda del delirio di un presidente isterico attivarono il loro arsenale. Russia e Cina minacciarono l’occdente, dichiarando che non avrebbero tollerato il lancio di nuovi missili verso l’Asia, ma non servì a nulla. Una raffica di missili puntati verso la Corea del Nord si levò in volo, immediatamente seguito dalla risposta di Cina e Russia. Gli USA scatenarono un attacco globale, lanciando verso la Russia, la Cina e, con grande sorpresa dei loro alleati, verso tutti i paesi europei; pare che fosse la loro misura di emergenza nel caso l’Europa fosse stata conquistata dal nemico e sembrò evidentemente il caso di dar fondo a tutte le risorse belliche senza curarsi di chi si colpiva. Francia, Gran Bretagna, India e tutti i paesi dotati di armi atomiche si unirono alla partita. Forse pensarono che non avrebbero più avuto occasione di usare i loro giocattoli e ormai tanto valeva divertirsi. Qualche atomica in più o in meno non avrebbe fatto differenza.

Noi vivevamo in una piccola città, lontana dai centri importanti e non fummo colpiti direttamente, ma il cielo oltre l’orizzonte sembrò incendiarsi in ogni direzione, il terreno tremò a lungo e si scatenarono tempeste cariche di sabbia.

Tutto finì in fretta, tutto, non solo la guerra; finì la civiltà, finì il mondo come lo conoscevamo, finì la vita di miliardi di persone. Molti morirono in quel momento, molti altri li seguirono negli anni successivi.

Ancora oggi la Terra è percorsa da pochi derelitti che frugano fra le macerie di un mondo contaminato. Forse in Africa, in Sud America o in Australia le cose vanno meglio, ma nessuno è mai giunto da laggiù per darci aiuto. Spero che l’Africa sia stata risparmiata; il continente meno importante, quello con meno potere, quello più povero tornerà magari nuovamente a essere la culla della civiltà.

Avevamo fatto tanta strada, a volte mi capita di pensare che avremmo potuto farcela, che il mondo si sarebbe potuto avviare verso un’era di prosperità e pace. Se solo avessimo superato quella crisi, la paura di ciò che sarebbe potuto accedere ci avrebbe insegnato a vivere in pace. Ricordo i miei compagni di scuola, c’era una bambina cinese, un bambino coreano e in un’altra classe c’erano due gemelli russi. Eravamo amici, non ci saremmo mai fatti la guerra, la nostra generazione avrebbe potuto essere la prima a vivere in un mondo interamente in pace.

Ma non è andata così. Nessun Dio adirato ha mandato i suoi cavalieri annunciati dalle trombe degli arcangeli, ma pochi folli maniaci hanno decretato la fine del mondo e i loro araldi erano dei banali mezzibusti del telegiornale.



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